Sette operatori sanitari su dieci, cioè il 70%, impegnati nel fronteggiare l’emergenza Covid-19 nelle Regioni italiane più colpite dall’epidemia da Coronavirus hanno mostrato sintomi di burnout. Addirittura nove su dieci hanno dichiarato di avere avvertito nei mesi più drammatici dell’emergenza sanitaria sintomi di stress psico-fisico. Gli operatori sanitari (medici e infermieri) più propensi a considerare i pazienti affetti da Coronavirus e i loro familiari come alleati nel percorso di cura e a favorirne il ruolo attivo nel prevenire o mitigare i sintomi legati al Covid-19 sono quelli più protetti dai sintomi di stress Covid-correlato.

È questo in sintesi il primo quadro che emerge dalla ricerca promossa dal Centro di Ricerca EngageMinds HUB dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Milano - in collaborazione con la Società Italiana di Management e Leadership in Medicina (SIMM) e con il Segretariato Italiano Giovani Medici (S.I.G.M.) - nell’ambito del progetto “C.O.P.E.” (Covid19-related Outcomes of health Professionals during the Epidemic), condotta nelle prime quattro settimane dell’emergenza sanitaria causata dalla pandemia in Italia. Per questo, Engageminds HUB* ha deciso di condurre uno studio sugli effetti della pandemia da Covid-19 sulla salute psico-fisica degli operatori sanitari nel picco epidemiologico di diffusione del virus. Dei 1.150 operatori sanitari - tra infermieri, medici e altri professionisti - coinvolti nello studio, 575 medici che lavorano nelle Regioni più colpite dall’emergenza Covid-19 (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte) hanno risposto a un questionario sul loro stato di salute, riportando la loro esperienza di sintomi psico-fisici (irritabilità, difficoltà ad addormentarsi la notte, tensioni muscolari) e i loro livelli di burnout (una misura dello stress lavorativo associata anche a minor resa sul lavoro, affaticamento fisico e mentale, cattiva salute) e il loro orientamento all’engagement di pazienti e familiari.



Ai professionisti sanitari è stato chiesto di condividere l’entità del loro livello di preoccupazione relativo all’emergenza sanitaria e di rischio percepito di contagio: i risultati mostrano in media alti livelli di preoccupazione (circa 8 in una scala da 1 a 10) e di percezione del rischio di essere contagiati (4 in una scala da 1 a 5), indipendentemente dagli anni di esperienza lavorativa e dalla professione del rispondente.

I risultati evidenziano in modo preoccupante come la salute psico-fisica degli operatori direttamente impegnati nella cura dei pazienti con diagnosi di Covid-19 sia stata messa a dura prova da quest’emergenza sanitaria: il 93% riporta di aver avvertito nell’ultimo mese almeno un sintomo di stress psico-fisico. In particolare, il 65% dei rispondenti ha dichiarato di essere sentito più irritabile del normale, il 62% di avere avuto maggiori difficoltà ad addormentarsi, poco meno del 50% di aver sofferto di incubi notturni, circa il 45% di aver avuto crisi di pianto e il 35% palpitazioni.
Per quanto riguarda lo stress lavorativo, un operatore su tre mostra segni di alto esaurimento emotivo (la sensazione di essere emotivamente svuotati, logorati ed esausti) e uno su quattro moderati livelli di depersonalizzazione (ovvero, la tendenza ad essere cinici, trattare gli altri in maniera impersonale o come “oggetti”, sentirsi indifferenti rispetto ai pazienti e ai loro familiari).

I dati, inoltre, mostrano come gli operatori più orientati al patient engagement, ossia che considerano l’alleanza con i pazienti e i loro familiari come un elemento imprescindibile per la gestione della cura e ne legittimano il ruolo attivo nella prevenzione o mitigazione della sintomatologia da Covid-19, si sentano maggiormente gratificati sul lavoro e riportino, in generale, livelli di stress e burnout inferiori.

Questi primi risultati mostrano come la pandemia di Covid-19 abbia avuto un forte impatto negativo sul benessere psicofisico degli operatori sanitari. Dati analoghi a quanto rilevato da uno studio cinese effettuato durante l’epidemia da Covid-19 esplosa lo scorso gennaio (Lai e colleghi, 2020) e che ha coinvolto operatori sanitari impiegati in reparti Covid-19. I risultati hanno mostrato su tutto il campione percentuali importanti di depressione (50%), ansia (44,6%), insonnia (34%) e stress psicologico (71,5%). I sintomi più severi sono stati riscontrati proprio negli operatori di prima linea, lavoratori della città epicentro dell’emergenza sanitaria.

D’altro canto, la predisposizione degli operatori a “mettere al centro” pazienti e familiari nel percorso di cura, in linea con altri studi precedenti (Epperson, 2016), sembra essere un fattore protettivo rispetto al rischio di sviluppare sintomatologie di stress ed esaurimento emotivo negli operatori coinvolti nella gestione dell’emergenza.

«Mentre la crisi Covid-19 ha messo sotto pressione i servizi sanitari in tutto il mondo e i Governi si sono mossi per rallentare la diffusione del virus - spiega la dottoressa Serena Barello, ricercatore di EngageMinds HUB dell’Università Cattolica e responsabile dello studio - gli operatori sanitari sono dall’inizio in prima linea nella gestione quotidiana della pandemia. Il personale sanitario si è trovato a dover fronteggiare una situazione estremamente stressante e complessa, dai tratti imprevedibili, mettendo a serio rischio la propria salute non solo fisica, ma anche emotiva e psicologica, salute già messa a dura prova in tempi ordinari e che - è verosimile immaginare - possa essere stata ulteriormente compromessa dal peso della crisi sanitaria generata da Covid-19, inasprendo aspetti di vulnerabilità la cui tenuta è già precaria».

«A leggere questi dati vi è l’impressione che l’impatto della crisi sanitaria sul benessere dei professionisti della salute è stata e sarà importante a livello globale. Si stima che le ricadute possano essere non solo visibili sulla salute dei lavoratori nell’immediato, ma con importanti ripercussioni anche a lungo termine. Tuttavia, sensibilizzare gli operatori sanitari all’importanza dell’engagement dei pazienti e dei loro familiari può essere una strategia per mitigare questi rischi», afferma la professoressa Guendalina Graffigna, Direttore di EngageMinds HUB della Cattolica.

«Una prospettiva di questo genere rende urgente una politica di tutela nei confronti dei sanitari che dovrebbe tendere a migliorare le condizioni lavorative e mitigare sin da subito l’impatto di questa emergenza sul benessere, presente e futuro, dei professionisti sanitari. Al fine di raggiungere questo obiettivo, il Servizio sanitario nazionale dovrebbe sviluppare strumenti di risk assessment psicologico-emozionale destinati agli operatori sanitari, facendo particolare attenzione e valorizzando la loro dimensione umana oltre a quella professionale: un piano pratico per rafforzare la resilienza degli operatori della salute durante e dopo la pandemia, evitando che diventino le vittime ulteriori del peso psicologico, emozionale e cognitivo della situazione critica vissuta è per questo cogente», dichiara il dottor Andrea Silenzi, vicepresidente della Società Italiana di Leadership e Management in Medicina (SIMM).

In altre parole, «durante l’emergenza – e anche quando saremo nella cosiddetta fase di “convivenza” con il virus – i professionisti sanitari dovrebbero poter ricevere adeguato supporto emotivo al fine di salvaguardarli dal rischio di dimenticare la propria natura umana. Il costo psicologico della pandemia per gli operatori della salute, di fatto, non può essere negato né sottostimato», osserva la dottoressa Claudia Marotta, presidente della Associazione Italiana Giovani Medici (SIGM).

Il rischio di non considerare prioritari interventi di prevenzione psicologica sistematizzati e di lunga durata focalizzati sulla promozione del benessere e dell’engagement della workforce sanitaria è quello di cronicizzare una condizione già complessa che l’emergenza Covid-19 facilmente peggiorerà. «D’altro canto – concludono i ricercatori - , la più grande sfida e opportunità per il sistema socio-sanitario oggi è, forse, proprio quella di ricostruire quel senso empatia che ci unisce e ci permette di riconoscerci reciprocamente come esseri umani».