di Emanuela Mora *  

È da quando il governo ci ha chiesto di restare in casa, limitando per decreto la nostra socialità, che mi frullano in testa le parole di Georg Simmel, uno dei grandi maestri del pensiero sociologico tra i fondatori della disciplina, vissuto a Berlino nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Parlando delle relazioni fra le persone nella loro vita quotidiana, egli insiste sul “sentimento di soddisfazione” che le persone provano quando riescono a realizzare “l’impulso alla socievolezza” insito nella loro stessa natura, senza che esso venga compromesso o macchiato dalle innumerevoli esigenze pratiche e richieste utilitaristiche che di solito ci spingono (o ci costringono) ad avere a che fare gli uni con gli altri.

Di solito, infatti, ci rivolgiamo agli altri perché abbiamo qualche bisogno o qualche dovere nei loro confronti: ai nostri studenti dobbiamo fare lezione; ai nostri insegnanti dobbiamo prestare attenzione per meritare un buon voto; al cliente in negozio, rivolgere una parola gentile per fidelizzarlo; al figlio disobbediente spiegare o imporre come ci si comporta in modo educato; al vicino di casa mostrare la nostra superiorità o nascondere il nostro senso di inferiorità. Sentiamo il bisogno di denunciare l’immigrato senza permesso di soggiorno oppure di aiutarlo a trovare un lavoro per regolarizzare la sua posizione; facciamo volontariato con gli anziani per alleviare la loro solitudine e sentirci in pace con noi stessi; con i compagni di squadra oscilliamo tra il cameratismo condiviso contro gli avversari e la competizione per il posto da titolare alla prossima partita.

Sono pochissimi esempi, ciascuno può aggiungerne molti altri. Da tutti voglio trarre due elementi su cui raramente fermiamo la nostra attenzione:

Il primo punto, ovvio direi, è che qualsiasi siano le motivazioni che ci spingono a interagire con gli altri, c’è quasi sempre una esigenza pratica, un dovere o un bisogno alla base della relazione. Che sia desiderio di collaborare, competizione, conflitto, rabbia, impegno per il miglioramento della vita collettiva, non fa differenza: ciò che sta al primo posto nelle nostre relazioni quotidiane è quasi sempre un motivo pratico, un obiettivo da realizzare.

Il secondo punto è spesso oscurato, o almeno non vi prestiamo di solito una grande attenzione. Ed è che sempre traiamo anche una soddisfazione, dalle interazioni con gli altri. Una soddisfazione che non è prodotta dal contenuto stesso della nostra relazione, è un di più rispetto a essa: è il piacere derivante dal fatto di fare le cose insieme ad altre persone, il piacere di godere del contatto con le altre persone, indipendentemente dall’esito della relazione stessa, il piacere dell’essere testimone della vita e dell’esistenza delle altre persone con cui entriamo in contatto e del farci vedere, raggiungere da loro.

Ecco, nella nostra vita di tutti i giorni questa soddisfazione non riusciamo neppure a riconoscerla, presi come siamo dall’urgenza di realizzare i contenuti delle nostre interazioni, gli obiettivi che ci siamo preposti e che sono programmati secondo una agenda rigorosa e spesso piuttosto intensa di contatti, eventi, riunioni, incontri, la cui scala di priorità è fissata dall’importanza degli obiettivi medesimi, solo apparentemente incisi nella roccia delle nostre agende, come stiamo imparando.

L’emergenza improvvisa dell’epidemia e l’inaspettata “sospensione” dei nostri calendari (non a caso l’area semantica della sospensione è una delle più frequentate in tutti i discorsi, articoli, messaggi in circolazione in queste settimane) ha svelato la duplice natura della stragrande maggioranza delle nostre interazioni, rovesciando le nostre percezioni. Vista l’impossibilità di seguire l’ordine programmato dei nostri impegni e l’obbligo di adeguarci al distanziamento sociale, ecco che ci stiamo abituando a perseguire obiettivi rarefacendo i nostri contatti interpersonali diretti. Tale rarefazione, però, porta in primo piano quell’impulso alla socievolezza che ci spinge a cercare gli incontri con gli altri per il puro piacere di essere con loro; impulso sempre presente e segno della nostra radice umana più profonda, ma di solito sepolto o talvolta sopraffatto da quello che dobbiamo dimostrare di essere o saper fare. In questi giorni, mi pare, molti di noi hanno riscoperto il piacere di mandare un messaggio solo per riannodare un filo con persone a cui si pensa ma che di solito “non si ha il tempo di chiamare”. Stiamo utilizzando le piattaforme di smartworking per aperitivi virtuali, le chat di messaggistica e i social network per raccontare la nostra quotidianità rallentata, gli applicativi della didattica online per far sapere agli studenti che ci manca il contatto fisico e la presenza in aula, perfino il loro brusio annoiato di sottofondo.

Il coronavirus così, ci ricorda una lezione che viene da lontano: la socievolezza è uno dei valori fondanti del nostro essere uomini e donne che vivono insieme nelle città, è un impulso che trascende le tante cose importanti che ci sono da fare ogni giorno.

E il tempo presente aggiunge un comma a quella lezione, un comma che Simmel – se un po’ conosco lo studioso che ho imparato ad amare nel mio lavoro di sociologa – non avrebbe mancato di sottolineare: se la socievolezza temporaneamente non può essere realizzata nei parchi, per la strada, nei locali, e in tutti i luoghi fisici che frequentiamo, allora ben vengano gli strumenti digitali che ci permettono di inventare modi creativi per non farci mancare gli uni agli altri, come sanno soprattutto i più giovani tra noi, da cui anche in questo caso sarà opportuno imparare.


* Professore di Sociologia della comunicazione nella facoltà di Scienze politiche e sociali, direttore del centro ModaCult