Con questo articolo proseguiamo il dibattito - aperto il 18 giugno dall’intervento su Cattolici e politica del professor Agostino Giovagnoli - a cento anni dall’appello di don Luigi Sturzo “agli uomini liberi e forti”. Un manifesto che, anche un secolo dopo, non ha perso il suo smalto e la sua freschezza. 

di Damiano Palano *

Il 18 gennaio 1919, in una sala dell’albergo Santa Chiara di Roma, vide la luce il Partito Popolare Italiano. A dare origine al nuovo soggetto politico fu un piccolo gruppo di esponenti del mondo cattolico, che, illustrando in un celebre documento i lineamenti programmatici del partito, indirizzò un appello «a tutti gli uomini liberi e forti» che sentivano «alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti». 

Tra i principali promotori dell’iniziativa era naturalmente Luigi Sturzo, che già in un discorso tenuto a Caltagirone alla vigilia di Natale del 1905 aveva sostenuto la necessità di dar vita a un partito di ispirazione cristiana, in grado di riportare i cattolici italiani all’interno della vita politica nazionale. 

Quasi quindici anni dopo, la situazione politica del Paese, nella quale il Partito Popolare nacque effettivamente, era però radicalmente cambiata. L’esperienza della guerra mondiale aveva per molti versi impresso un’impronta indelebile nella società italiana, proiettandola verso la modernizzazione, ma anche portando alla luce le strutturali debolezze del processo di unificazione. Gli anni dello scontro bellico avevano infatti definitivamente sancito l’ingresso dell’Italia nell’era delle masse, cui era stato richiesto un impegno senza precedenti e che avevano sperimentato tecniche di mobilitazione del tutto inedite. 

Ma i quattro anni di guerra avevano anche contribuito a scavare, tra il «Paese reale» e la classe politica liberale, un solco ancora più profondo, destinato ad aggravare il deficit di legittimazione che fin dalle origini gravava sulle istituzioni del nuovo Stato nazionale. E le nuove tensioni internazionali che contrassegnavano lo scenario postbellico – dalla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, alle conseguenze della rivoluzione bolscevica – avrebbero contribuito ad alimentare quei conflitti e quelle rivendicazioni che, di lì a poco, precipitarono l’Italia in uno dei periodi più difficili della sua storia unitaria.

Benché affondasse le radici nella dottrina sociale della Chiesa e nella storia del movimento cattolico, l’appello ai «liberi e forti» coglieva pienamente la novità dello scenario che si stava delineando e la portata delle sfide che si ponevano al Paese. Non casualmente, le sintetiche linee programmatiche del nuovo partito si aprivano esprimendo il pieno sostegno al progetto wilsoniano della Società delle Nazioni. Per quanto fosse necessario non compromettere «i vantaggi della vittoria conquistata con immensi sacrifici», per gli estensori del manifesto era infatti «imprescindibile dovere di sane democrazie e di governi popolari trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società». 

Mentre a Parigi si apriva la conferenza di pace, il nuovo partito non esitava così a indicare, nel «patrimonio politico-morale delle genti cristiane», il riferimento necessario per dare una nuova struttura all’ordine mondiale. Se il riconoscimento delle aspirazioni nazionali, il disarmo universale, l’abolizione della segretezza dei trattati, l’affermazione del principio della libertà dei mari, il pieno riconoscimento della libertà religiosa definivano il quadro dell’approccio che il neonato partito auspicava, il programma non mancava naturalmente di toccare i grandi nodi della politica interna, relativi soprattutto alla necessità di adeguare l’architettura istituzionale. 

Un punto chiave era così l’introduzione del sistema elettorale proporzionale, cui molti in seguito avrebbero imputato il problema dell’accresciuta ingovernabilità, ma che allora era inteso come strumento essenziale per garantire una maggiore rappresentatività del Parlamento. Ma, più in generale, il programma auspicava anche il superamento dell’impronta centralistica dello Stato ottocentesco, grazie al pieno riconoscimento del pluralismo associativo e all’avvio di riforme nel campo della previdenza e dell’assistenza sociale, nella legislazione del lavoro, nella tutela della proprietà privata. 

Mentre tensioni internazionali e turbolenze interne tornano a intrecciarsi in diverse democrazie occidentali, molti osservatori evocano oggi analogie con l’avvio della «crisi dei vent’anni» innescata dalla fine della grande guerra. I problemi di una società che imboccava la via della modernizzazione e di un’impetuosa trasformazione sociale erano però ben diversi da quelli con cui si confrontano le nostre società. 

A distanza di un secolo dalla sua stesura, l’importanza che ancora oggi conserva l’appello del 18 gennaio 1919 non sta tanto, dunque, nelle specifiche soluzioni che profilava o nella strada che indicava ai «liberi e forti». Per quanto la lezione della storia rimanga sempre una bussola irrinunciabile, sarebbe infatti ingenuo confidare che il passato possa consegnarci gli strumenti per risolvere i problemi del presente. 

In un tempo in cui l’appello al popolo diventa l’immancabile strumento retorico di ogni leader politico, ma in cui paradossalmente il popolo sembra dissolversi in una vischiosa somma di risentimenti individuali, la più preziosa eredità intellettuale di quell’esperienza va probabilmente ricercata altrove. E cioè in quella specifica visione della democrazia, della società e dei suoi conflitti che indusse a battezzare come «popolare» il nuovo partito. Perché forse il vecchio appello ai «liberi e forti», riletto con gli occhi del 2019, invita soprattutto a chiedersi “chi” sia oggi il «popolo» e come esso sia trasformato rispetto non solo a quello di cento anni fa, ma anche a quello che nel corso del «secolo breve» occupò il centro della scena politica. E porsi una simile domanda significa anche interrogarsi sui modi in cui il «popolo» può continuare a essere ancora oggi il fondamento di una solida democrazia pluralistica, capace di sottrarsi tanto alle tentazioni plebiscitarie quanto alla presa della spirale tecnocratica. 

* docente di Scienza politica nella facoltà di Scienze politiche e sociali (campus di Milano e Brescia) e direttore del dipartimento di Scienze politiche 


Terzo articolo di una serie dedicata ai cento anni dall'Appello ai liberi e forti di don Luigi Sturzo