Con questo articolo proseguiamo il dibattito - aperto il 18 giugno dall’intervento su Cattolici e politica del professor Agostino Giovagnoli - a cento anni dall’appello di don Luigi Sturzo “agli uomini liberi e forti”. Un manifesto che, anche un secolo dopo, non ha perso smalto e freschezza. 

di Gabrio Forti *

Il «programma politico-morale patrimonio delle genti cristiane» di Luigi Sturzo ci parla molto, oggi, di giustizia: certo di quella sociale (la «elevazione delle classi lavoratrici»…), che attraversa tutto l’Appello; ma anche, di riflesso e almeno per chi come professionista del diritto se ne senta interpellato, di giustizia penale. Un ambito inscindibile dall’orizzonte morale e che della politica (e della sovranità) è una componente fin troppo vistosamente rappresentativa. La più avanzata riflessione dei penalisti si iscrive del resto, da tempo, in quella che viene detta la politica criminale, ovvero il sistema delle decisioni politiche, auspicabilmente razionali e legittime, in materia criminale.

È anche questa politica che ha bisogno di «uomini liberi e forti». Come i due giuristi cattolici, l’avvocato Giorgio Ambrosoli e il magistrato Rosario Livatino, intensamente ricordati di recente in Università Cattolica. Due grandi figure che, riprendendo le parole di Sturzo, hanno sentito «alto», fino al supremo sacrificio, «il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti ». È ispirandosi all’esempio di questi servitori del bene comune che nell’Appello può leggersi un invito, rivolto primariamente al mondo cattolico (dove certo non mancano «gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti»), perché concorra attivamente al dibattito pubblico sui temi di giustizia, mettendo a disposizione, per dirla con Habermas, un «serbatoio ricco di motivazioni e risorse morali», senza «dogmatismo e costrizioni della coscienza individuale».

Può sorprendere, ma a indirizzare un tale interpello verso la sfera della giustizia tout court e di quella penale in particolare, è anche lo sguardo retrospettivo sulla temperie storica in cui esso fu concepito: le trattative di pace avviate proprio nel gennaio del 1919 a Versailles, in cui Sturzo mostrava di riporre tante speranze. Il fallimento di quegli sforzi diplomatici, già preconizzato da J.M. Keynes, e foriero dei sanguinosi conflitti successivi, fu dovuto in larga parte al prevalere, rispetto alla necessità di costruzione di un nuovo assetto europeo e mondiale stabile e pacifico, di una logica processuale e accusatoria, protesa a esprimere la condanna senza remissione dei ‘malvagi’, ad appagare un bisogno di espiazione dell’‘altro’, dell’ancora e sempre ‘nemico’. La cosiddetta ‘pace’, imbastita sotto l’ombra greve della paura e del risentimento, fu soprattutto, al di là della retorica e delle buone intenzioni, la prosecuzione con altri mezzi della guerra cui asseriva di voler porre rimedio.

Quell’esperienza, che l’anniversario merita di riportare alla nostra attenzione, vale come ennesima illustrazione degli effetti moltiplicatori della violenza prodotti dalla smania di rivalsa e di restituzione del torto. Un impulso che nasce dalla «malizia umana», dal «sospetto» e dall’«esasperazione», che «hanno la trista virtù» - come ricordava il cattolico Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame (imperituro monumento all’idea di giustizia) - «di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni» e che si scatenano «quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità».

La carità, appunto. 

L’Appello di Sturzo può essere raccolto oggi, nel campo della giustizia, con un impegno alla carità vissuta innanzi tutto quale risorsa di conoscenza e verità, con cui bonificare i pozzi avvelenati del dibattito pubblico, affrancandoli dalla rancorosa e pervasiva coltre ‘criminale’ che, per mascherare il vuoto di idee e di progetti degni delle «virtù morali del nostro popolo», viene costantemente imposta ai più disparati e complessi problemi sociali. Proprio come avviene ogni giorno di fronte alla emergenza epocale delle migrazioni, ridotta a un mero coacervo di colpevoli da braccare e punire (scafisti, ONG, migranti stessi, ecc.).

È facendo uso di un tale sapere fecondato dalla carità che ognuno - i cattolici compattamente e in prima fila - dovrebbe prodigarsi per contrastare la «usanza antica e non mai abbastanza screditata» - si legge sempre in Manzoni - «di ripetere senza esaminare», «di mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa». 

* docente di Diritto penale e Criminologia, facoltà di Giurisprudenza, direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale 


Settimo articolo di una serie dedicata ai cento anni dall’Appello ai liberi e forti di don Luigi Sturzo