Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali?” è il titolo del convegno promosso dal centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita” il 30 ottobre a Milano. In questa occasione il professor Giuseppe Lupo ha lanciato un dibattito a cui hanno aderito alcuni docenti della Cattolica. Pubblichiamo l’articolo del professor Aldo Carera

di Aldo Carera *

Vittorio Bachelet, Giuseppe De Rita, Renzo De Felice, Gino Giugni, Giovanni Marongiu, Ettore Massacesi, Mario Romani, Pasquale Saraceno, Enzo Scotti, Paolo Sylos Labini: giuristi, economisti, letterati, sociologi e storici che si sono distinti nel mondo degli studi e nel campo delle responsabilità politiche e sociali del nostro paese. Nonostante le differenze di impostazione culturale, convinzioni e discipline professate, tutti loro hanno messo a disposizione le proprie competenze (con diverse tipologie di impegno e di continuità) di uno stesso ministro. Nello specifico, il ministro del Mezzogiorno e delle aree depresse Giulio Pastore che a inizio del suo mandato (1958-1968) si è avvalso anche di una rivista, «Il nuovo osservatore», per dar vita a un dibattito culturale aperto a molti altri intellettuali di diversi schieramenti politici ed ecclesiali (era il tempo del Concilio Vaticano II: tra gli autori anche Joseph Ratzinger). 

Pochi anni dopo, a Milano e in differente contesto, un sindacalista dei metalmeccanici (Pierre Carniti) fondava la rivista «Dibattito sindacale», palestra di sociologi e giuristi di una generazione più giovane: Gian Primo Cella, Bruno Manghi, Mario Napoli, Tiziano Treu

Non è difficile riconoscere nei nomi fatti, qui e sopra, i tanti frequentatori dei chiostri di Largo Gemelli.

Si tratta solo di due esempi, tra i meno noti, della casistica ben più ampia di una stagione di vivaci dibattiti mossi, in fondo, dalla comune volontà di contribuire al consolidamento democratico, culturale ed economico della giovane Repubblica. Esprimevano tutti una medesima convinzione: in un paese in cui ampi segmenti della popolazione, per limiti culturali e per condizioni economiche, faticavano a realizzarsi come cittadini a parità di diritti e di opportunità, era indispensabile una coraggiosa elaborazione culturale in grado di produrre discontinuità soprattutto lì ove le distorsioni del capitalismo industriale erano più radicate. Tale orientamento presupponeva uno stretto rapporto con decisori politici intelligenti e intuitivi - pur anche autodidatti, come i due indicati - ben determinati a perseguire il controverso equilibrio tra i vari possibili livelli d’azione, tra centro e periferie, tra iniziativa pubblica e privata, tra le logiche del mercato e la tensione per la giustizia sociale. 

L’intesa tra policy maker e intellettuali era alimentata dalla condivisione di mondi vitali omogenei e da un ordine di valori che, per i primi, ridimensionava le smanie personali del potere e, per i secondi, dava respiro alle ambizioni accademiche individuali e alle rispettive autoreferenzialità disciplinari. 

I comuni radicamenti vennero poi interpretati con sensibilità e con formule differenti, comunque innovative nelle teorizzazioni e nelle sintesi politico-operative. Il punto d’attacco era quello che Pastore chiamava la «desertificazione» civile e sociale di metà anni Venti quando, spinto dal disagio economico, lo «spirito della reazione» alterava ogni prospettiva, tanto che «ciò che ieri si vedeva come un incubo, oggi si vede come una liberazione». Processo replicabile, temeva, negli squilibri di una modernizzazione industriale priva di riferimenti morali e non sufficientemente aperta all’apporto della pluralità degli attori sociali.

Per gli uni e per gli altri i risultati corrisposero solo in parte alle attese, come accade a chi si pone nella prospettiva di salvaguardare le logiche comunitarie e sociali della convivenza all’incalzare degli eventi che fanno forza sull’autonomia e sulla dignità delle persone umane. Ma la loro parte l’hanno fatta. La loro voce è risuonata non invano.

Oggi come allora il contrasto alla desertificazione è affidato alle mani e alle intelligenze che cooperano nelle officine dell’agire politico e sociale. Un tempo si trattava di rompere l’immobilismo e le fragilità segnate dai processi storici. Oggi di non cedere imbelli a quel che sta già accadendo in un capitalismo sempre più sorvegliato da gotici metadati capaci di manipolare cinicamente il nostro libero arbitrio (come denuncia Shoshanna Zuboff) e di mettere in croce il pluralismo sociale, fiducioso luogo umano di buona convivenza.

* docente di Storia economica e direttore dell'Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia “Mario Romani” dell’Università Cattolica, campus di Milano


Ottavo contributo di una serie di articoli dedicati al ruolo degli intellettuali