Giacca marrone, capello corvino, e un piacevole accento texano. Si presenta così Lawrence Wright, premio Pulitzer 2007, all’inaugurazione dell’anno accademico del master in Giornalismo dell’Università Cattolica. E fin da subito, quasi a voler provocare la determinazione dei 30 nuovi iscritti e aspiranti giornalisti, afferma: «Questo è il periodo peggiore per essere giornalisti: dovrete condurre una battaglia per la verità». 
 


Una lectio interessante, tenuta da una delle firme di punta del settimanale americano New Yorker, il cui titolo pone quella che potrebbe essere allo stesso tempo una domanda e un’invocazione: “God save the news”. Questa sorta di preghiera laica rappresenta un esplicito riferimento all’ultimo libro pubblicato dall’autore, “God save the Texas”. In un’epoca in cui fare informazione spesso non coincide più col raccontare la verità propriamente detta, l’esperienza di Wright diviene quasi un mantra necessario per capire da dove è necessario ripartire. 

Il suo racconto, il suo metodo, restituiscono agli ascoltatori lo spessore di una professione che sempre più necessita di essere rinvigorita, per fare i conti con il mare grosso della comunicazione digitale. Wright, che dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001 ha deciso di spostarsi a vivere in medio oriente per toccare con mano il mostro di cui nulla si sapeva ma tutto si ipotizzava, col suo lavoro ha cercato di approfondire più da vicino le ragioni che si celano dietro a un evento storicamente cruciale per la storia del mondo come l’11 settembre, definendo così un vero e proprio metodo di lavoro. Intervistato da Paola Peduzzi, ex allieva del master della Cattolica e oggi responsabile per le pagine estere del Foglio, Wright ha parlato dei suoi “Donkeys”, le sue fonti, cercando di spiegarne l’essenzialità: «Parlate con tutti – afferma – ascoltate tutti, perché tutti hanno una storia da raccontare».