Esattamente 40 anni fa nell’Iran dello scià scoppiava un’insurrezione che avrebbe per sempre cambiato il volto del Paese, trasformandolo da monarchia assoluta a repubblica islamica. Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, gli ha dedicato il libro 1979: Rivoluzione in Iran (ed. Rosenberg&Sellier), presentato all’Università Cattolica il 30 maggio davanti a un folto pubblico che ha testimoniato l’interesse per questo Paese, come sottolineato da Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali e direttore dell’Aseri.

Tra le cause del crollo repentino del regime dello scià Pedde ne evidenzia una particolare: «Dopo il 1953, in seguito alla trasformazione del Paese in monarchia assoluta, la dinastia Pahlavi ha verticalizzato completamente la catena di comando della pubblica amministrazione, privandola di qualsiasi capacità di movimento o di giudizio autonomo». Ecco perché, una volta partito lo scià, le forze armate collassarono: non avevano più alcuna capacità autonoma di prendere una decisione. «Questa è stata la vera condanna dello scià – sentenzia lo studioso –: Mohammad Reza Pahlavi ha prodotto una generazione di tigellini, di funzionari che non hanno mai avuto il coraggio di dare indicazioni in merito a quanto profonda fosse la crisi dello Stato». 

Oltre a non avere alcun tipo di supporto dalla sua stessa struttura, perché completamente asservita al sistema monarchico, lo scià si trovava in una situazione di grande debolezza fisica, essendo all’epoca malato terminale di cancro: «Aveva un tumore al sistema linfatico in fase terminale – rivela Pedde –, era stato curato segretamente da un medico francese proprio perché non si venisse a sapere del suo stato di salute». 

Lo studioso ha dato del monarca un’immagine a tutto tondo: «Lo scià è una figura sicuramente complessa, in larga misura negativa, ambiziosa, arrogante, però non possiamo dire onestamente che fu negativa a 360 gradi. Ebbe molte intuizioni: fu l’unico sovrano della regione che comprese in tempo utile che era assolutamente necessario diversificare la piattaforma economica del Paese, non riuscì a realizzarlo ma quantomeno lo intuì come problema. Avviò un processo di riforme particolarmente importante, la cosiddetta Rivoluzione Bianca, e se oggi abbiamo un Iran con un livello di scolarizzazione elevato è anche grazie allo sviluppo del sistema educativo voluto dallo scià. Fallì miseramente sulla riforma agraria, questo fu il problema principale nella tenuta della monarchia».

Accanto allo scià, l’altra grande figura storica di quel periodo è ovviamente l’ayatollah Ruhollah Khomeini, l’uomo divenuto poi la guida riconosciuta della rivoluzione. Pedde racconta come nel ’63 Khomeini fosse stato condannato a morte dallo scià, ma grazie all’intervento di due figure di rilievo la pena gli era stata poi commutata nell’esilio. Queste due personalità che lo salvarono erano l’allora comandante della Savak, la polizia segreta dello scià, Hassan Pakravan, una figura leggendaria, era un generale che ogni settimana invitava a pranzo Khomeini, e l’altro soccorritore fu il grande ayatollah Shariatmadari, che innalzò di grado Khomeini perché non potesse più essere messo a morte. «L’ayatollah Khomeini – conclude Pedde – tornerà in Iran accolto da una folla di milioni di persone e la rivoluzione avrà un esito vittorioso nel nome di questa dimensione religiosa, anche se era chiaro che la matrice rivoluzionaria era alquanto eterogenea, non comprendeva soltanto i religiosi, ma anche le forze marxiste, nazionaliste e liberali».

Secondo Riccardo Redaelli, che in Cattolica insegna Geopolitica e Storia e istituzioni dell’Asia, quello di Pedde «è un libro molto bello, agile, veloce, non ammazza il lettore con un’inutile erudizione o con un apparato di note sconfinato. È un libro molto leggibile e profondo. Innanzitutto, si intitola 1979, ma non parla solo del 1979. Il libro ha anche un’altra qualità: rifugge sia la demonizzazione dello scià, sia la visione agiografica». 

C’è un altro aspetto che, secondo Redaelli, il libro ha saputo mettere bene in evidenza: «Questo essere intrappolati in un regime in cui lo scià ha creato solo yes-man. Il monarca si è contornato di una banda di tecnici occidentali strapagati che non hanno nessuna connessione con il Paese. Ha una corte di sicofanti e di tirapiedi che non gli fanno capire gli errori». Lo scià era sì un sovrano debole, malato, disconnesso dalla realtà, ma una cosa la capì, racconta Redaelli: intuì che non sarebbe più tornato in Iran a morire, per questo si fece portare dietro un metro per due di terra iraniana dove farsi seppellire.

Uno con le idee molto chiare era invece l’ayatollah Khomeini: «Lui vuole la radicalità, vuole i morti per le strade – sostiene Redaelli –, lui spinge al martirio, spinge i giovani a farsi ammazzare dalla polizia dello scià, perché avere i morti serve a rompere tutti i porti, a radicalizzare». Una prova di questo si riscontra nella repressione feroce che, per volere di Khomeini, colpì anche Pakravan e Shariatmadari, proprio le due persone grazie alle quali l’ayatollah era sfuggito alla pena di morte nel ’63. Della radicalizzazione impressa da Khomeini al Paese vediamo ancora oggi le conseguenze.