Massimo Scaglioni, Il servizio pubblico televisivoNon è la Bbc ma, a certe condizioni, della Rai abbiamo ancora bisogno. Massimo Scaglioni, docente di Storia dei media alla facoltà di Scienze linguistiche, va al cuore di una questione che, nel nostro Paese, ha sempre fatto discutere e farà parlare ancora di sé dopo che il 6 maggio 2016 è scaduta la convenzione ventennale tra Stato e Rai Spa in materia.

Secondo il professor Scaglioni, che ha appena pubblicato con Vita e Pensiero il volume Il servizio pubblico televisivo. Morte o rinascita della Rai? stiamo parlando di «un’idea  moderna, tanto più a fronte dei cambiamenti economici e mediali in corso, perché fa da contrappeso rispetto alla tendenza naturale del mercato verso la concentrazione in grandi conglomerati, sempre più rilevanti nel panorama statunitense ed europeo (Google, Youtube, ecc.). Un servizio pubblico radicato nel tessuto del Paese può porsi degli obiettivi diversi da questi giganti, come lo sviluppo dell’industria nazionale».

A quali condizioni? «A patto di risolvere le dieci questioni che presento nel libro, prima fra tutte la governance. La speranza è nella legittimazione dell’esserci, dell'essere riconosciuto come bene comune, che ogni cittadino pensi che è importante che ci sia».

Ma esattamente, cos’è il servizio pubblico? «È il frutto di una elaborazione storica e culturale diversa per ogni Paese. Alle origini sembra una sorta di risposta alla scarsità delle frequenze, per evitare l’anarchia dell’etere e poi si riempie di contenuto grazie a delle idee. Io la leggo così, il servizio pubblico è una storia di idee. È qualcosa di più della Tv di stato, è un servizio alla nazione. Per questo dovremmo sentire come nostra la Rai, come un bene comune, anche se in questo momento al di sotto di una certa età la capacità di attrazione è bassissima, per cui si perde il valore dell'universalità, cioè la capacità di parlare a tutti, una delle caratteristiche di un vero servizio pubblico».

Eppure sembra che la maggioranza degli italiani sia insoddisfatta della Rai, perché? «L’ingerenza politica ha minato la legittimazione del servizio di fronte al pubblico. Come ha ben mostrato nella sua storia internazionale Bourdon (VeP), se è vero che il “mito del controllo” politico attraversa tutti i sistemi televisivi nazionali, in Italia assume una centralità quasi grottesca. Da noi prevale l’idea che il predominio sulla tv pubblica, la spartizione dei posti di potere, la diffusa lottizzazione sia vitale per la conquista dell’egemonia e si traduca in voti. Per fortuna a questa pulsione del controllo è possibile affiancare quella progettuale».

La Rai è anche una storia di progetti quindi? «Sì, anzi è la parte meno indagata della sua storia ed è quella che cerco di delineare nel libro. In particolare sono due i momenti progettuali cruciali e possono essere ricollegati a due figure-chiave di manager del servizio pubblico all’italiana. Il primo segna la nascita della televisione, con l’ingresso dei cattolici in Rai, e si lega a Filiberto Guala, nei due anni in cui è amministratore delegato dal 1954 al 1956. Grazie al primo concorso per giovani laureati, portò in Rai la generazione dei cosiddetti corsari, tra cui Furio Colombo, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Piero Angela, Folco Portinari, Gianfranco Bettetini, Raffaele Crovi, Fabiano Fabiani».

E l’altro momento di progettualità? «È quello che, fra la fine degli anni ’80 e l’inizio ’90, vede l’ingresso dei comunisti con Angelo Guglielmi che assume l’incarico di direttore della Terza Rete e lancia programmi come Telefono Giallo, Chi l’ha visto, Linea Diretta, confrontandosi con un pubblico non più “discente” ma partner».

Il ruolo dei cattolici può essere ancora rilevante? «Il panorama mediale contemporaneo, caratterizzato dalla progressiva frammentazione dell’offerta, da una asincronia nei consumi, da una decisa “privatizzazione” dei contenuti, contribuisce a legittimare un servizio pubblico destinato a integrare la comunità nazionale, a rivolgersi a un pubblico di cittadini e non di spettatori o clienti. I cattolici rimangono ancora portatori di valori fondamentali per il futuro del servizio pubblico, non nel senso di chiusura confessionale, ma nel senso dell’umanesimo, della centralità dell’uomo, per l’idea del servizio, se crediamo in una comunità che dialoga. C’è una evidente affinità elettiva tra servizio pubblico e cultura cattolica».