di Laura Bossini *

Durante gli incontri preparatori avevano cercato di avvertirci: «Ragazzi, non sarà uno scambio alla pari. Presto vi renderete conto che sarà molto di più quello che riceverete di quello che offrirete». Nessuna previsione fu più azzeccata. Prima di partire per il Bala Vikasa Training Centre ho fatto una promessa a me stessa: ho cercato di liberare testa e cuore da ogni aspettativa per prepararli ad accogliere i suoni, i colori, gli usi e i costumi, i racconti e le esperienze di un paese magnifico come l’India.

Mi sono spogliata dei pregiudizi, degli schemi e dei modi di pensare che considerano quel Paese così lontano e diverso, dei racconti e dei consigli di chi c’era già stato e di chi invece avrebbe voluto esserci: ero certa che mi avrebbero indotto a parlare più che ad ascoltare, a giudicare più che a comprendere, a dare risposte più che a farmi e fare domande. Ora so che la ricchezza che mi aspettava a Warangal era troppo grande per essere rinchiusa in confini troppo stretti e che l’unica parola in grado di riassumere quelle tre settimane non può che essere gratitudine.

Sono grata perché – forse per la prima volta nella mia vita – ho sperimentato cosa vuol dire essere “in minoranza” e non solo per il colore della pelle, il modo di vestirsi, l’accento italiano che storpia l’inglese o le abitudini alimentari che mal hanno sopportato il cibo troppo piccante, ma soprattutto per la generosità, lo spirito di condivisione e la cura dell’altro che mi hanno sorpreso, emozionato, commosso. Dallo staff del Bala Vikasa così come dai miei compagni di avventura, tutti provenienti dal Sud-Est asiatico, ho imparato che non esiste nessun “noi contro di voi”, che nessuna differenza può sopravvivere alla forza del dialogo e dello scambio agito nell’ascolto e nel rispetto dell’altro e soprattutto che le amicizie nate da una risata o una chiacchierata condivisa possono sopravvivere anche al fuso orario e alla distanza geografica.

Sono grata perché, dopo anni passati a scovare sui libri il modello della perfetta cooperazione, ho potuto toccarla con mano grazie all’impegno di chi ha deciso di mettere la propria vita a servizio del suo Paese. Tantissimi sono stati gli insegnamenti trasmessi da Shoury e Sunnitha, responsabili dei progetti sostenuti dalla Ong dove siamo stati ospiti, così come dagli altri docenti che hanno animato il corso di formazione in Community Driven Development: dall’idea che la cooperazione nulla ha a che fare con l’assistenzialismo dei “soldi a cascata” fino a quella che considera il cambiamento innanzitutto come una predisposizione e un atteggiamento mentale; dal principio che lega la buona riuscita di un progetto alla sua capacità di rispondere alle esigenze della comunità fino a quello di guardare sempre il bicchiere mezzo pieno anche quando la speranza latita.

La cosa sorprendente è che questi principi non sono rimasti vuote dichiarazioni d’intenti ma negli anni hanno ispirato progetti in più di 6mila villaggi sparsi nei territori degli stati dell’Andhra Pradesh e del Telangana finalizzati alla promozione dell’inclusione sociale delle donne rimaste vedove, al miglioramento della qualità dell’istruzione pubblica tramite la riapertura di scuole governative abbandonate da anni, al finanziamento di pozzi per l’estrazione di acqua potabile e alla promozione dell’agricoltura organica libera dall’uso di costosi e non sostenibili fertilizzanti chimici.

Sono grata perché in tre settimane ho imparato che dalla povertà e dalla miseria non nascono solo rassegnazione e disperazione, ma anche la voglia di riscatto, la speranza e la capacità di reagire. A insegnarmelo sono stati sì il numero delle scuole riaperte o dei pozzi inaugurati ma soprattutto i sorrisi dei bambini che orgogliosi mi mostravano i loro quaderni ordinati e mi raccontavano di voler diventare dottori o insegnanti “per aiutare il proprio Paese”; le mani callose del contadino che mi mostrava fiero i cetrioli cresciuti grazie ai concimi organici o il fragile abbraccio del vecchietto che tornava a casa dopo aver recuperato le medicine per curare i suoi occhi.

Sono grata perché lo zaino vuoto con il quale sono partita è tornato a casa traboccante di emozioni e ricordi indimenticabili.

* 27 anni, di Brescia, terzo anno di dottorato alla Scuola di dottorato “Istituzioni e politiche”, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano