Ci sono voluti quattro giorni e cinque notti di Consiglio europeo per raggiungere l’accordo sul Recovery Fund definito da molti “storico”. Abbiamo chiesto ad alcuni professori dell’Università Cattolica un commento sull’intesa del 21 luglio che potrebbe segnare la storia dell’Unione europea. Lo speciale


«Innanzitutto vorrei esaminare nei dettagli quello che è stato firmato». Alessandro Mangia, docente di Diritto costituzionale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica è ben lungi dal cantare vittoria all’indomani dell’intesa raggiunta sul Recovery Fund. «Vivere di annunci, comunicati stampa, e roba del genere non è molto serio, anche se sembra essere diventata un’abitudine», aggiunge il docente. «Sono cautamente realista. Lasciarsi andare a facili entusiasmi in questa fase ancora interlocutoria non mi sembra un atteggiamento corretto da tenere. Rischiamo un brusco risveglio, anche perché, nonostante quel che si dice, soldi regalati non ce ne saranno. E mi sembra che i commentatori più avveduti siano già su questa linea».

Professor Mangia, chi ha perso e chi ha vinto in questo accordo? «Se leggerà i giornali dei 27 Paesi troverà 27 vittorie. Come ho detto vorrei vedere il testo... Non l’ho ancora fatto. Quindi formulare un giudizio in questa fase è molto azzardato. Se poi qualcuno si vuole lasciar andare a entusiasmi, a commenti, a celebrazioni o lamenti affari suoi. Io me ne guardo bene perché non è serio».

A che cosa si riferisce? «Le indicazioni di massima contenute nell’accordo dovranno essere tradotte in atti normativi, che sono ancora tutti da scrivere e saranno scritti in fretta perché c’è necessità di mobilizzare queste risorse. Ma le modalità di raccolta di queste somme, le modalità di spesa e i controlli sono tutti ancora da fissare nei dettagli».

È un’Europa unita quella che emerge da questo accordo? «Le sembra coesa un’Europa che ha dato questo spettacolo per quattro giorni? È chiaro che ciascuno dei partecipanti a questo Consiglio ha bisogno di un evento favorevole da rivendere in chiave di competizione politica interna. E questo vale per tutti. Da Conte a Rutte. Da Macron a Orban. Cosa vuole, è la debolezza strutturale di quella cosa che ci siamo abituati a chiamare Unione Europea. Capisce che se lei deve avere l’unanimità di 27 stati con economie diverse, culture diverse, esigenze diverse, forme di governo diverse, situazioni politiche diverse ottenere qualcosa diventa un’impresa disperata. Quale sarebbe la parte del mondo che viene gestita in questo modo? E guardi che non è un discorso a priori euroscettico: è questione semplicemente di riconoscere la disfunzionalità di questo sistema. L’Unione europea è una poliarchia fatta da 27 altre poliarchie diverse. Se la vede così capisce perché è, nel suo assetto attuale, intimamente disfunzionale. È questa una situazione che si trascina dai referendum francese ed olandese del 2005 che hanno bloccato la cosiddetta Costituzione europea. Da allora si è ripiegato sul Modello Lisbona 2008, la cui resa è sotto gli occhi di tutti».

È l’architettura istituzionale complessiva che non va bene? «Mi sembra ovvio. Gli Stati Uniti funzionano così? La Cina funziona così? La Russia funziona così? Sono queste le grandi aree del mondo con le quali dovremmo confrontarci. L’Europa è un’espressione geografica che, dal punto di vista organizzativo, si chiama Unione europea. In sé non è né negativa né positiva: è semplicemente un veicolo istituzionale che qualcuno sa usare e che noi abbiamo usato molto male».

La sua è una posizione molto scettica… «Non direi. Direi piuttosto che è un atteggiamento pragmatico e realista. La questione eurofili o euroscettici, che appassiona tanto il dibattito interno italiano, mi lascia completamente indifferente. Di fronte a questi problemi io vedo solo se la cosa conviene o non conviene. Fine. E cerco di fare un bilancio. Qui si parla di cose che non ci sono ancora: la Commissione dovrà emettere obbligazioni per raccogliere soldi sul mercato, che comunque dovremo restituire a lungo termine. Mi sembra un po’ diverso dalle semplificazioni che girano sui giornali che parlano di soldi praticamente regalati. Sono soldi che dovremo restituire e che dovremo spendere sotto condizioni e controllo. L’albero della cuccagna non esiste, neanche a Bruxelles».

Non ci sarà un rilancio dell’Italia? «Guardi, diversamente da altri, non ho una sfera di cristallo per poterle rispondere. Si capirà cosa è uscito dal Consiglio di Bruxelles quando l’accordo annunciato sarà tradotto in atti normativi e disposizioni di attuazione. E ancor meglio lo capiremo quando, in ciascuno dei 27 Paesi dell’Unione, questi soldi saranno arrivati e saranno stati effettivamente spesi. Prevedo molte sorprese, e molte, inaspettate, asimmetrie».

E il Meccanismo europeo di stabilità? «A questo punto si dovrebbe aver capito tutti di cosa si tratta. Il MES è stato uno strumento per gestire una crisi che era quella del 2012. Ha fatto il suo lavoro subito dopo la sua istituzione. Da allora continua a sopravvivere e cerca una ragione di esistenza, Se fosse un ente di diritto interno sarebbe tranquillamente definito un ente inutile, visto che le funzioni del MES sono oggi svolte dalla BCE e, probabilmente, lo saranno dal Recovery Fund che sarà approntato nei prossimi mesi. Un fondo che è destinato a funzionare secondo la stessa logica di condizionalità. Direi che la durezza dello scontro sul controllo e sulla destinazione dei fondi del Recovery Fund dà la misura di quanto fossero visionari i discorsi sulla sospensione del Regolamento 472 attraverso una lettera di due Commissari. Ma questa, per fortuna, è una polemica interna tutta italiana».

La chiave di volta? «Non c’è. Si è semplicemente calciato avanti il barattolo. La situazione istituzionale di questo Continente è quella che abbiamo sotto gli occhi. Sono dieci anni che i trattati sono sospesi e si va avanti a colpi di emergenze. E quindi sulla debole base giuridica offerta dal 122 TFUE.  Si figuri che, nei giorni scorsi, qualcuno aveva persino ipotizzato di fare un quarto fondo per aggirare le difficoltà di questa trattativa: ideare, cioè fare un quarto veicolo finanziario, dopo il FESF, il MESF e il MES. Il tutto in deroga al TFUE che in realtà, nei suoi artt. 123, 124 e 125 è molto, molto chiaro. Gli Olandesi e gli altri cosiddetti virtuosi, a parte gli interessi individuali e nazionali di cui ho già detto, non hanno mica torto a dire che è tutto al di fuori dei trattati. Si continuano ad affrontare emergenze per le quali non si hanno strumenti giuridici di intervento. Il che spinge alla ricerca di trovate estemporanee che si esprimono in una sequenza di comunicati stampa che riempiono le pagine dei giornali, hanno un significato politico, ma che hanno valore normativo pari a zero. E che devono poi essere tradotti in termini giuridici. Questo modo di procedere disorienta non solo gli osservatori, ma anche i funzionari che devono operare sulla base di atti normativi perplessi e contraddittori. Se a questo aggiunge che il funzionariato europeo che si trova in Commissione non è affatto quel regno della tecnocrazia competente e illuminata che, per qualche ragione, piace dipingere qui in Italia, può farsi un’idea della situazione in cui ci muoviamo».