Si chiama “Coronavirus 2019: benessere, paure e comportamenti”. Il sondaggio online promosso da un’équipe di psicologi dell’Università Cattolica in poche ore ha raggiunto la restituzione di 2.000 questionari, arrivati a oltre 3.000 in pochi giorni.

Il progetto di ricerca è nato dalle riflessioni circa la percezione del rischio di contagio da COVID-19 di Francesco Pagnini, docente di Psicologia Clinica, e dei colleghi del Dipartimento di Psicologia Michela Balconi, Mauro Bertolotti, Andrea Bonanomi, Emanuela Confalonieri, Cinzia Di Dio, Gabriella Gilli, Guendalina Graffigna, Camillo Regalia, Emanuela Saita, Semira Tagliabue e Daniela Villani. Al professore abbiamo chiesto di raccontarci lo sviluppo di un’idea che in poco più di una settimana ha dato dei risultati molto interessanti. 

Qual è l’origine di questo studio che avete approntato in un tempo record? «Per affrontare il rischio dell’epidemia di Coronavirus, le autorità hanno decretato delle forti restrizioni nei movimenti delle persone, in particolare nelle regioni più vicine all’originario focolaio. In questa situazione molto particolare la necessità di ridurre i contatti sociali, uniti alla paura del contagio e dello sviluppo dei sintomi, potrebbe avere diverse ripercussioni sulle persone dal punto di vista psicologico».

In pochi giorni il sondaggio online ha raggiunto oltre 3.000 persone. Come è stato possibile? «Abbiamo utilizzato alcune mailing list di persone interessate a questo tipo di ricerche, e importante è stata la diffusione tramite i social di gruppi studenteschi (quello di psicologia, A.P.E. InFo, conta da solo circa 500 persone). La proposta si è diffusa immediatamente e abbiamo potuto contare sul cosiddetto “campionamento a valanga”, chiedendo alle persone interessate di condividere il sondaggio con altri. Oltre 3.000 persone, provenienti da varie zone d’Italia, compresa la cosiddetta “zona rossa” e regioni che al tempo non avevano visto alcun caso di Coronavirus, hanno risposto al sondaggio. Questa forte risposta testimonia il grande interesse verso l’argomento, ma forse anche la necessità di sentirsi parte attiva, fornendo il proprio punto di vista, in un momento in cui qualcuno può sentire di avere un po’ meno controllo sulla propria vita». 

Cosa voleva indagare questo sondaggio? «Innanzitutto la percezione del rischio, unita a diversi aspetti psicologici che possono rivelarsi importanti in questa situazione di emergenza. Ci siamo chiesti se le persone con alcune caratteristiche individuali, tra cui l’ottimismo, la flessibilità cognitiva e la stabilità emotiva, riescano a fronteggiare meglio questa situazione. Abbiamo indagato anche l’impatto del rischio percepito sulla qualità di vita, con l’obiettivo di fotografare le diverse implicazioni nelle zone di quarantena, basso rischio e non a rischio. Abbiamo poi indagato se il sentirsi a rischio contagio e la paura di sviluppare la malattia non possa avere un impatto a livello fisico, con una forte preoccupazione verso il proprio corpo, che potrebbe tradursi in sintomi fisici. In questo senso, un’ipotesi curiosa, ma difficile da indagare, è se le persone che non hanno il virus, in questi giorni hanno un aumento di episodi di tosse o starnuti. Infine, abbiamo fatto delle domande su degli aspetti sociali e familiari. Volevamo infatti indagare se questa situazione di emergenza ha allontanato le persone anche a livello sociale, per esempio aumentando diffidenza e ostilità verso i gruppi sociali considerati “diversi”, e quali fattori psicologici hanno invece promosso la fiducia. Infine, abbiamo esplorato le caratteristiche della comunicazione tra genitori e figli in questa situazione di crisi».

Tutto è cominciato una settimana fa, il 27 febbraio. Avete raccolto tutti i dati ma è già disponibile qualche interpretazione? «Le analisi sono in corso, ma i primi risultati indicano, come prevedibile, delle elevate differenze nei comportamenti da attuare tra le varie zone (rossa, gialla, e “a basso rischio”). Per esempio nella zona rossa il 50,0% dei partecipanti dichiara che si terrà fisicamente lontana dagli altri, contro il 18,4% della zona gialla e il 14,6% della zona bianca. Sempre nella zona rossa vi è una forte preoccupazione per la propria salute, mentre la preoccupazione verso l’impatto “sociale” del contagio è similmente distribuito nelle varie zone. In tutte le aree geografiche considerate, vi sono differenze individuali: ad esempio, ad un titolo di studio più elevato corrispondono livelli più alti di preoccupazione; vi è una significativa differenza tra maschi e femmine, e queste ultime esprimono maggiore preoccupazione e intenzione di modificare i propri comportamenti. É interessante notare che molte di queste differenze, che si riscontrano invece nel resto della popolazione, vengono annullate quando analizzate nella singola zona rossa, come se il rischio oggettivo di un contagio possa appianarle». 

Quali sono i fattori psicologici che possono costituire una protezione per la persona? «Quello che emerge da una prima analisi è il ruolo centrale della flessibilità cognitiva e della stabilità emotiva come fattori protettivi rispetto alla percezione del rischio. Le persone da questo punto di vista più in grado di affrontare situazioni incerte ma anche maggiormente in grado di gestire situazioni di stress e di regolare le emozioni negative come l’ansia e la rabbia, riescono ad adattarsi meglio, mettendo in campo delle risorse mentali in grado di ridurre i livelli di preoccupazione e di impatto sociale del virus. L’ottimismo è un altro fattore protettivo importante che permette, anche di fronte a una preoccupazione, di sentirne meno gli effetti».

Di cosa trattano gli argomenti suggeriti dalle domande? «Lo studio si occupa di esplorare conoscenze, emozioni, e comportamenti in seguito alla diffusione del virus COVID-2019. Le domande dunque vertono sul virus e sul rischio percepito, sulla salute della persona e sulle preoccupazioni per il suo corpo, sulla sua personalità, sulle sue credenze relative ai pensieri degli altri e le sue visioni del mondo, ma anche sulle sue idee e fiducia sul sistema sociale e politico, sui pregiudizi che una situazione di forte incertezza e paura sociale come questa spesso incrementano. Inoltre, alcune domande esplorano come i genitori stanno affrontando la comunicazione di questa situazione coi propri figli».

Chi sono le persone che hanno risposto al sondaggio? «Gli oltre 3.000 soggetti che hanno completato il questionario hanno un’età variabile con una media di 30 anni. Ci sono molti studenti, lavoratori, liberi professionisti. Il campione è marcatamente femminile (poco più del 70%) e proviene da tutta Italia. Più della metà è residente in Lombardia e oltre un centinaio proviene dalle zone in quarantena nei dieci paesi della zona rossa, e i restanti dalle altre regioni italiane».

Il sondaggio è composto da oltre 200 domande divise in una dozzina di questionari. Un’operazione lunga che richiede una decisa motivazione… «Sì, la compilazione completa del sondaggio richiede circa una mezz’ora. Anche noi siamo rimasti sorpresi dal notevole numero raggiunto in poche ore. Questo suggerisce una voglia di “dare una mano” diffusa, contribuendo a supportare la ricerca scientifica. Riteniamo di poter affermare che, oltre alla percezione del rischio, ci sia nelle persone un forte senso di mancanza di controllo, una sorta di impotenza. Il questionario ha offerto uno spazio in cui ciascuno ha potuto assumere il controllo della situazione».