di Dante Liano *


La provvidenza, il destino o le divinità non hanno bisogno di una prova per costatare la propria esistenza. Ma se ne avessero, tale prova si chiamerebbe Rigoberta Menchú. Nata nel villaggio di Chimel, nelle profondità delle montagne del Guatemala, là dove finisce il mondo e inizia la selva, dove le alte nuvole scendono come una nebbia fredda, a nove chilometri a piedi dalla città più vicina, come luce il sole e come acqua i ruscelli che nascono in quei paraggi e poi diventano fiumi portentosi, Rigoberta Menchú apparteneva ai dimenticati, ai marginati, ai poveri più poveri del mondo. Il suo destino sarebbe stato vivere e morire lì, senza che nessuno si accorgesse della sua esistenza.

La storia si fece presente a Chimel sotto la forma della dura repressione attuata dall’esercito guatemalteco contro le forze guerrigliere, negli anni Ottanta. La persecuzione si estese anche agli appartenenti alle Comunità di Base Cattoliche, di cui la famiglia di Rigoberta faceva parte. I catechisti cattolici furono segnalati come sovversivi e terroristi, e molti di loro morirono a mano di spietati carnefici - oggi accusati di genocidio contro la popolazione maya. Il padre di Rigoberta fu bruciato vivo, la madre uccisa e il suo corpo esposto a cielo aperto, due fratelli uccisi. A 16 anni, con scarse conoscenze dello spagnolo, Rigoberta Menchú e la sorella fuggirono a piedi in Messico, dove ripararono nella parrocchia di San Cristóbal Las Casas, in Chiapas, dal vescovo Samuel Ruiz.

Erano i giorni in cui la Conferenza episcopale messicana si riuniva in quella sede, e monsignor Ruiz volle che la piccola Rigoberta parlasse ai prelati per denunciare la situazione del Guatemala. Il suo intervento fu una rivelazione: anche con le difficoltà del suo spagnolo, la forza spirituale, l’energia vitale e il carisma naturale della giovane ragazza impressionarono i vescovi. A quel punto, cominciarono a chiamarla un po’ dappertutto, prima in Messico e poi in America Latina. E sempre riusciva a convocare grandi quantità di persone: per la verità semplice delle sue parole, per l’amore verso la vita che trasmetteva.

Iniziò un giro per l’Europa. A quell’epoca, non avendo fatto la scuola, studiava per conto suo, e dormiva tre ore per notte pur di imparare tutto quello che lo Stato le aveva negato. A Parigi, conobbe Elisabeth Burgos Debray, antropologa venezuelana, che con un gruppo di collaboratori, raccolse la sua testimonianza in libro: Me llamo Rigoberta Menchú. Tale testimonianza vinse il Premio Casa de las Américas, nel 1982, e la forza del suo messaggio era tale, che presto venne tradotto nelle principali lingue del mondo. Rigoberta era diventata un simbolo della lotta contro i dittatori, un simbolo della lotta per i diritti umani, un simbolo dei poveri del mondo. Una prima parte del libro racconta la cultura dei maya; la seconda, le persecuzioni subite. Era una viva testimonianza di umanità. Si suole dire che il libro di Rigoberta fece più danno alla dittatura militare guatemalteca di quanto ne fecero tutte le azioni militari della guerriglia.

Il discorso di Rigoberta, con i suoi continui rimandi alla cultura maya, non si discostava dagli insegnamenti religiosi cattolici ricevuti dai suoi genitori. Perché, forse, la parte più impressionante della sua testimonianza era la proposta del perdono. Chiedeva giustizia, è vero, ma allo stesso tempo dichiarava il perdono per quelli che avevano sterminato la sua famiglia.

Fu questo atteggiamento che la mise in condizioni di far parte della Commissione che stabilì la fine delle ostilità in Guatemala. I negoziati di pace si protrassero per diversi anni e Rigoberta ebbe un ruolo fondamentale: non deve essere stato facile discutere e arrivare a un compromesso con i duri militari che avevano organizzato decine di massacri in Guatemala. Ma la pace arrivò e la guerra finì.

La sua incessante attività come testimone delle sofferenze dei popoli maya e come portavoce di un futuro di pace, le valsero il Premio Nobel per la Pace nel 1992, oltre a un numero notevole di dottorati honoris causa in diverse università di tutto il mondo.

Rigoberta ha il dono della parola. Chi l’ha sentita lo può testimoniare. Supportata da una cultura millenaria, come quella dei maya, da un carisma unico che sa arrivare al cuore delle persone, riesce a trasmettere un messaggio di alta spiritualità, di alti valori, di profonda e invincibile umanità. Ha saputo trasformare il dolore, la perdita e il lutto in messaggio di speranza.

Se uno pensa che era nata a Chimel; che il suo destino era quello di contadina analfabeta, di morire giovane (come tante donne nei villaggi del Guatemala per causa di una malattia curabile che la mancanza di medici o di assistenza sanitaria rende mortale); che non avrebbe avuto la possibilità di conoscere nemmeno la capitale del suo paese; ecco, se uno considera questo, e considera come la potente volontà e l’indiscutibile talento di questa donna l’abbiano portata a essere un simbolo delle comunità indigene dell’America Latina, può ancora avere speranza nelle potenzialità di ogni essere umano, nella prevalenza dello spirito sulla violenza.

* Ordinario di Lingua e Letterature ispano-americane nella facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere