di Anna Casella *

Quello che sta succedendo in Amazzonia è un fenomeno che ha alcuni aspetti antichi e alcuni molto nuovi. Poiché il governo brasiliano viene indicato come il principale responsabile della diffusione degli incendi, parto proprio dal Brasile per proporre la mia analisi. In Brasile, l’Amazzonia è da sempre il terreno di confronto e di scontro tra due diverse mentalità: queste non riguardano solo la gestione dell’ambiente e lo sfruttamento agricolo o delle risorse (legname, acqua, minerali) ma si estendono fino a comprendere temi di convivenza sociale come il rapporto tra i brasiliani di origine europea e gli indigeni che hanno visto riconosciuto il loro diritto alla terra solo in tempi recenti e non senza grandi difficoltà. Riguardano la visione della “identità” culturale che, per molti brasiliani, non comprenderebbe (o non dovrebbe comprendere) la radice indigena, e nemmeno quella nera. E riguarda, infine, la concezione della politica internazionale con l’emergere di chi pensa all’Amazzonia in termini di sovranità nazionale (e oggi, di “sovranismo”).

L’Amazzonia è, da sempre, una frontiera di espansione agricola. La pratica di guadagnare terre alla coltivazione attraverso la queimada (appiccare il fuoco) appartiene alla tradizione delle popolazioni contadine che vivono nell’interior e che sono, in gran parte, eredi della dissoluzione del sistema coloniale. Una pratica applicata in diverse aree del mondo, laddove esiste ancora l’agricoltura itinerante, che si realizza senza avere il diritto di proprietà del terreno: non facendo uso di alcun concime, il contadino ha bisogno di sfruttare terra vergine, da abbandonare dopo qualche raccolto per andare in cerca di altra. 

Questo sistema, però, è stato adottato negli ultimi decenni dalle grandi compagnie transnazionali e da coloro che a vario titolo hanno interesse alle straordinarie ricchezze dell’Amazzonia. Quello che di “nuovo” c’è in questa pratica è, appunto, il fatto che sia usata dalle grandi compagnie per scopi che non sono più l’agricoltura di sussistenza (che occupa aree minuscole e ha una sua “ecologia” interna) quanto piuttosto quelli dello sfruttamento agricolo e minerario e, soprattutto, il fatto che ciò accada con l’approvazione del governo e della stessa opinione pubblica in gran parte convinta che la questione ambientale non riguardi l’Amazzonia. Proprio alcuni giorni fa uno dei ministri del governo Bolsonaro ha dichiarato che il polmone del mondo non è l’Amazzonia bensì gli oceani.

Ma c’è di più: l’Amazzonia (e le aree limitrofe, della pre-Amazzonia che, insieme all’area densamente forestata costituiscono la cosiddetta “Amazzonia legale”) è, dall’epoca della colonizzazione, il rifugio della maggioranza delle popolazioni indigene, che si diffondono anche verso il centro del Brasile, nella regione matogrossense. Oggi, nei confronti degli indigeni l’ostilità (mai venuta meno) è alquanto palpabile: si lamenta il fatto che essi dispongano di molta terra che non rendono produttiva (circa il 13% della intera superficie del Brasile), che vivano secondo modelli sociali “arcaici”, che non contribuiscano allo sviluppo sociale ed economico. Nei loro confronti il giudizio di una parte della popolazione brasiliana è stereotipato e pregiudizialmente negativo, quando non francamente razzista. 

Ancora una volta, non è un atteggiamento nuovo, ma il dramma è che, a diversi decenni di distanza dalla Costituzione del 1988 che riconosceva il debito culturale nei confronti delle popolazioni native e avviava politiche di compensazione (per esempio la demarcazione delle terre indigene e, in seguito, di quelle quilombolas per i neri) questo sia divenuto l’atteggiamento ufficiale delle istituzioni: lo stesso presidente Bolsonaro si è di recente espresso in questo senso. C’è sullo sfondo una visione culturale che ritiene “primitiva” qualsiasi maniera di vivere che non corrisponda a quella di ispirazione occidentale e borghese e che veicola un evidente disprezzo nei confronti delle popolazioni amazzoniche e rurali. Una cultura che sostiene piuttosto un modello di sviluppo orientato al profitto, non considera l’ambiente una priorità e soprattutto, ritiene che il destino dell’Amazzonia riguardi soltanto i brasiliani (in realtà, la parte che ha il potere di decidere). Vale la pena di ricordare, in vista del Sinodo sull’Amazzonia, che ben diversa è la posizione di Papa Francesco, per il quale (si veda l’Enciclica Laudato si’) la ricchezza della foresta amazzonica sta anche nella varietà delle culture umane che lì vivono e che la custodiscono.

Infine, la questione della sovranità sull’Amazzonia (lo stesso presidente Lula si servì diverse volte dello slogan “A Amazȏnia é nossa”) diventa oggi il pretesto per sostenere teorie “sovraniste” secondo le quali chi manifesta preoccupazione per il destino dell’Amazzonia ha ragioni nascoste di “controllo” sulla regione e sulla nazione. In questo senso si possono leggere le accuse di opportunismo che il presidente Bolsonaro ha lanciato verso Germania e Norvegia criticando la loro decisione di sospendere i contributi per la tutela della foresta e la sua sprezzante replica di non avere bisogno dei loro soldi. Come si vede, non è “solo” una foresta che brucia.  

* docente di Antropologia culturale, facoltà di Scienze della formazione, campus di Brescia e Milano