di Francesca Poletti *

A dieci anni, già sognavo i 18 per vivere da sola, alle superiori ero convinta di intraprendere l’esperienza universitaria all’estero appena ce ne fosse stata l’occasione. Ovviamente la vita non sempre asseconda i nostri piani. E i piani di un adolescente sono sempre più grandi di lui. Così mi sono trovata a laurearmi, dopo tre anni vissuti a Roma, passati in un batter d’occhio, e non aver neanche mai accennato a consultare la pagina dei programmi internazionali. Come una vera testarda che si rispetti quindi, quando mi sono trasferita in Cattolica a Milano ho deciso che l’occasione non mi sarebbe sfuggita una seconda volta.

La prima cosa che ho imparato dall’Erasmus è che avrei dovuto adattarmi al cambiamento inaspettato. Il mio trasferimento a Lisbona è stato accompagnato subito da un imprevisto relativo al mio alloggio, e, per una maniaca del controllo come me, è stato difficile da gestire. Ho imparato poi, che quando la tua vita dipende da tante persone nella tua stessa condizione, con cui condividi l’80% del tuo tempo, i piccoli cambi di programma imprevisti sono all’ordine dell’ora, quindi è il caso non farsi travolgere dall’emotività ogni volta, nell’ordine di mantenere una qualche forma di sanità mentale.

Fortunatamente passandomi una mano sulla coscienza mi sono resa conto, in un modo a cui non mi sarei mai potuta approcciare altrimenti, di tanti miei piccoli errori quotidiani sui quali, ad oggi, continuo a lavorare per estirparli dal mio modo di vedere il mondo. L’Erasmus mi ha insegnato che cambiare si può. Così come si può mantenere una relazione a distanza, che al giorno d’oggi sembra più difficile che non far fallire la propria start-up.

Ho imparato che a prendersi tempo per sé e a vivere con calma non muore nessuno e che per vivere felice devo trovare una piccola città baciata dal sole tutto l’anno. Ho capito che il Finlandese sembra Giapponese e il Portoghese è molto simile al Russo. Che il senso di una giornataccia lo si può trovare in un tramonto meraviglioso e che per ogni opportunità a cui si dice “no” possono emergerne tante altre sempre altrettanto entusiasmanti (anche se le volte in cui ho detto “no” sono state veramente poche).

Tutto sommato quello che ho imparato è che l’Erasmus può essere qualunque cosa di cui tu abbia bisogno in quel momento, anche se pensi di non aver bisogno di nulla. Se si è in grado di sfruttarlo a proprio vantaggio, e secondo i propri desideri, senza farsi travolgere da i tipici cliché da “#erasmuslife”, anche se al principio non pensavi di aver bisogno di un cambiamento, senza mutamento non c’è vita.

La mia esperienza, in particolare, è stato un momento di riflessione, ma pur sempre in linea con il modo in cui conduco la mia vita. Mi sento abbastanza adulta, da non aver avuto bisogno di feste universitarie a base alcolica per conoscere poche persone eccezionali che mi hanno accompagnato in viaggi che rimarranno per sempre nel mio cuore. Non ho sentito il bisogno di strafare, di eccedere, di vivere come se fossero gli unici sei mesi nella mia vita in cui io fossi veramente libera di fare qualunque cosa desiderassi, perché ho capito che voglio che l’Erasmus sia ogni giorno.

Ho voluto portare nella mia quotidianità le piccole lezioni imparate in questi mesi piuttosto che chiudere la porta su quest’esperienza e tornare a vivere dentro un recinto. È ovvio che la liberà da cui sei protetto in quei mesi non è la stessa di ogni giorno, quando le incombenze, i doveri, le giornate di pioggia, si accumulano. Quello che però si può conservare sono le preziose esperienze e le lezioni che si sono accolte, ascoltando se stessi e gli altri.

Per questo l’Erasmus non è per me una nicchia protetta, una monade a sè, ma è un punto di cambiamento che voglio sia sempre presente in quella che io sono e diventerò, perché nel bene e nel male mi ha insegnato tanto su come affrontare prima di tutto me stessa e i miei limiti, conoscerli e, passo passo, accettarli. Nel complesso, come ogni esperienza forte, non è che un innalzamento della propria coscienza del mondo e, anche se a volte è stata dura, perché imparare a stare con se stessi lo è (e penso che questo sia un traguardo decisivo in una situazione del genere), mi sento in ultima analisi di rispondere: “un’esperienza davvero unica”, ogni volta che mi è stato chiesto come è stato il mio Erasmus.

Un “unico” nel bene e nel male, un “unico” che racchiude quanto detto sopra, un “unico” che viene sminuito spesso, non approfondito nelle risposte delle persone che hanno vissuto questa realtà. A mio avviso la parte di “difficoltà” è stata la migliore, è quella che permette il completamento di una crescita personale e il raggiungimento di un certo grado di consapevolezza di sé e del mondo, quella che mi ha dato più ricchezza e quella che oggi si è trasformata in “forza”.

* 24 anni, di Ravenna, corso di laurea magistrale Comunicazione per l'impresa, i media e le organizzazioni complesse (Cimo), interfacoltà Lettere e filosofiaEconomia, sede di Milano