Migrazioni e appartenenza religiosa. È il tema della ricerca che è stata presentata lo scorso 22 gennaio al Senato dal rettore Franco Anelli, alla presenza del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, e del ministro dell’Interno, prefetto Luciana Lamorgese.

Migrations and religious belongings. From the periphery to the core, for a new humanism” è uno studio inedito e multidisciplinare che l’Ateneo ha condotto nell’arco di tre anni, foriero di nuovi approcci alla governance dei fenomeni migratori. Il volume si articola in sei sezioni tematiche, molto ricche, per un totale di oltre 700 pagine. 

Lo studio ha confermato le ipotesi iniziali: al di là della sua straordinaria complessità e di investimenti di ricerca ancora insufficienti, vi è un pregiudizio ideologico che impedisce di cogliere adeguatamente il ruolo della religione nei processi migratori e di integrazione. È questo il frame ideologico-culturale in cui si situa lo stesso sistema di protezione. 

La ricerca evidenzia la necessità di rafforzare la formazione in materia religiosa e la reciproca conoscenza tra apparati istituzionali e organizzazioni/leader religiosi. I primi devono essere resi maggiormente consapevoli della rilevanza della religione in tutte le fasi del processo migratorio; i secondi devono essere resi maggiormente consapevoli dell’importanza del rispetto della legalità e, in particolare, di un ricorso corretto e non meramente strumentale alla richiesta di asilo politico.

Dallo studio emerge anche che le narrative dominanti sui richiedenti asilo sono prigioniere di visioni antitetiche e fortemente ideologizzate. Porsi dalla parte dei migranti ci consente invece di cogliere la straordinaria varietà dei percorsi individuali (così come la complessità dei contesti di partenza), rendendo le loro vicende paradigmatiche dei limiti fisiologiche di procedure standardizzate. Per certi versi, quando si adotta una prospettiva umanistica (ovvero focalizzata sui “migranti”, non sui “flussi”), diviene pressoché impossibile distinguere chiaramente le migrazioni forzate da quelle volontarie, in particolare quando questa distinzione è connessa alla dimensione della religione e al suo stretto rapporto con la dignità e la libertà personale.

Definire il confine tra migrazioni forzate e volontarie è un’operazione indispensabile a garantire la sostenibilità dei nostri sistemi di protezione: lo studio ribadisce la straordinaria complessità di tale operazione e la necessità di approcciare con le categorie dell’etica temi e problemi spesso piegati alla loro componente procedurale e comunemente ridotti a una sterile contrapposizione ideologica tra la politica dei porti chiusi e quella dei porti aperti.

Migranti e richiedenti asilo sono soggetti capaci di sfidare il concetto di identità religiosa, nella sua declinazione sia individuale sia collettiva. L’identità religiosa è una fonte di resistenza e resilienza, ma è anche ciò che conferisce significato alla decisione di migrare, specie per chi ha sperimentato solo dopo la migrazione un contesto di libertà religiosa. Essa fornisce il lessico per interpretare le scelte migratorie e offre nuovi elementi da considerare nel tracciare la distinzione tra migrazioni economiche e forzate. Tuttavia, l’identità religiosa dei migranti deve spesso scontrarsi con le visioni stereotipate che aleggiano nell’opinione pubblica, sia nel caso dei migranti musulmani, sia in quello dei migranti cristiani, che sperimentano con sofferenza e amarezza la scarsa familiarità degli italiani nei riguardi di tradizioni religiose diverse da quella romano cattolica. Una sofferenza che può tramutarsi in frustrazione, risentimento, autoisolamento quando il mancato riconoscimento della loro identità religiosa svaluta l’esperienza della persecuzione e del martirio. 

Il riconoscimento dell’identità religiosa dei migranti – oggi spesso negato sia sul piano culturale sia nell’interazione quotidiana – è una condizione essenziale per un processo di re-umanizzazione sul quale costruire una nuova etica dell’ospitalità, ma ciò riconduce a una situazione di diffuso analfabetismo religioso che evoca una vera e propria emergenza educativa. Analfabetismo rispetto non solo alla religione degli “altri”, ma anche alla “nostra” tradizione religiosa e alla sua ricchezza.

Riacquisire consapevolezza della “nostra” identità religiosa – qui intesa come la religione maggioritaria in Italia – è quindi una precondizione per confrontarsi con gli altri e gestire i possibili conflitti prodotti dalla distanza culturale. Ciò chiama in causa sia l’esigenza di alfabetizzazione religiosa, ma anche quella di riacquistare un legame con la sua dimensione trascendente, con la religione “vissuta” e non meramente ridotta alla sua dimensione culturale, facendo dell’immigrazione una sfida profetica per una società che afferma di fondarsi su radici cristiane.

Lo studio dimostra come l’assistenza spirituale, l’atteggiamento dei leader religiosi, le iniziative promosse dalle organizzazioni religiose possano fare la differenza. Ciò sollecita una più puntuale attenzione sia per i rischi (dall’autosegregazione alla radicalizzazione) sia per il potenziale positivo della religione latamente intesa.

Infine, lo studio, muovendo dalla convinzione che la religione sia un bene pubblico, e non soltanto un bene privato, incoraggia la riscoperta del ruolo della religione (ovvero delle religioni) nella sfera pubblica, e la ricerca di norme etiche condivise da porre alla base della vita collettiva (una sorta di etica globale che punti al massimo benessere per tutti). Esso approfondisce come la cooperazione interreligiosa, oltre che essere da supporto all’integrazione dei migranti, possa svolgere un ruolo prezioso nella costruzione di una società coesa e nella stessa governance globale delle migrazioni.

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