di Antonio Zotti *

Nella dichiarazione precedente al voto che lo avrebbe portato alla sua elezione a Presidente del Parlamento europeo, l’eurodeputato David Sassoli affermava: «Mi candido perché credo che l’Europa sarà più forte solo con un Parlamento europeo in grado di giocare un ruolo più importante. Dobbiamo essere tutti, comunque la pensiamo, impegnati nel costruire la casa della democrazia europea e questo Parlamento deve essere la casa della democrazia europea».

A prima vista, la dichiarazione potrebbe sembrare un consueto esercizio di retorica parlamentare, priva di elementi di particolare originalità, soprattutto alla luce dell’atteggiamento almeno formalmente pro-integrazione del gruppo parlamentare di riferimento di Sassoli (i Socialisti e democratici) e dello scopo del voto. Tuttavia, pur nella sua apparente “ordinarietà”, la dichiarazione è significativa nella misura in cui richiama aspetti fondamentali e non così scontati della realtà politica dell’Unione europea. 

In effetti, all’interno del complicato sistema istituzionale dell’Ue, il Parlamento è spesso presentato come un’isola di (relativamente) chiara corrispondenza alle categorie con cui siamo abituati a leggere la realtà politica che ci circonda. Il Parlamento è l’unica istituzione dell’Ue direttamente eletta dai cittadini, che essa rappresenta in maniera trasversale rispetto alle loro nazionalità; la sua organizzazione interna e il suo funzionamento sono molto simili a quelli di una qualsiasi assemblea parlamentare nazionale, articolata com’è in commissioni e gruppi parlamentari, e dotata di sistemi di votazione a maggioranza privi di complicati ‘doppi’ (o tripli) criteri propri ad esempio nel Consiglio; anche il confronto politico ospitato dal Parlamento europeo è in buona parte “riconoscibile” dal cittadino comune giacché si basa in buona parte sull’interazione fra le grandi famiglie politiche europee (popolarismo, socialdemocrazia, liberalismo, nazionalismo, sinistra radicale ecc.). 

I seggi del nuovo Parlamento europeo

La stessa comunicazione ufficiale del Parlamento non manca di sottolineare la natura specificamente e primariamente democratica di quest’ultimo, sia per aumentare la propria legittimità agli occhi dei cittadini dell’Ue, sia per affrontare con maggior efficacia il confronto con la Commissione o la Banca Centrale Europea, forti delle loro competenze tecniche, o il Consiglio e il Consiglio europeo, fondati innanzitutto sulle legittimità dei governi nazionali in essi rappresentati. Se in effetti guardiamo all’evoluzione dei rapporti inter-istituzionali fin dalle origini del processo d’integrazione europea, è difficile non individuare una chiara tendenza all’aumento progressivo dei poteri del Parlamento, seppure in maniera diseguale a seconda degli ambiti e nel quadro di un’entità politica (l’Ue) che non si rifà, se non entro certi limiti, al modello istituzionale della forma di stato di derivazione liberale. 

A questo punto bisogna tuttavia chiedersi se e quanto le circostanze effettive – date sia dei risultati delle elezioni europee sia dal più ampio contesto politico europeo – siano favorevoli ai progetti di ulteriore “parlamentarizzazione” del sistema politico dell’Unione. Per quanto riguarda il primo aspetto, tali programmi non potranno non confrontarsi con la presenza di un numero mai così alto di deputati che esprimono istanze euro-scettiche, seppur con intensità e modalità molto variabili, sulla base di posizioni che potremmo definire “nazionaliste” (mentre il numero degli euroscettici dichiaratamente “di sinistra” si è ridotto). Conseguenza di ciò è che l’attuale maggioranza pro-integrazione esigerà uno sforzo di coordinamento fra almeno tre gruppi politici, non potendo contare sull’autosufficienza della tradizionale alleanza fra Socialisti e Popolari (autosufficienza che in realtà era in buona parte solo formale, dato che coalizione ad hoc più ampie o alternative si sono sempre formate anche in passato). 

D’altro canto, l’effettivo potere d’interdizione dei regolari processi decisionali del Parlamento sarà probabilmente temperato sia dal mancato raggiungimento dei risultati previsti da alcuni a favore dei partiti euroscettici (un terzo o più dei seggi avrebbe permesso, ad esempio, la conquista di qualche presidenza di commissioni parlamentari “pesanti” e una maggiore incidenza sul processo di formazione della Commissione europea). Inoltre, rimane il problema della relativa capacità di coordinamento – sia all’interno di ciascun gruppo sia fra gruppi diversi – di partiti con priorità e programmi per lo più incentrati sulla dimensione nazionale, e dunque spesso divergenti se non in aperto reciproco contrasto. Ciò è evidenziato dalla presenza di due diversi gruppi d’ispirazione variamente nazionalista e più o meno euroscettica (Conservatori e Riformisti europei e Identità e democrazia), cui si somma un ipertrofico gruppo di non iscritti, che contiene la gran parte dei partiti del terzo gruppo euroscettico della scorsa legislatura (Europa della libertà e della democrazia diretta). 

Quanto agli orientamenti generali dell’Unione rispetto a una ulteriore parlamentarizzazione del sistema, la presenza fra i paesi membri di esecutivi con posizioni ambigue se non chiaramente avverse a qualsiasi avanzamento del processo d’integrazione rende alquanto improbabile la realizzazione dei progetti del Presidente Sassoli. Un tale obiettivo sarebbe infatti condizionato dall’accordo con le altre istituzioni, nonché con i singoli paesi membri; in tali condizioni, la capacità di un gruppo anche minoritario di governi di bloccare un processo di riforma – molto più impegnativo dei normali processi decisionali dell’Unione – è particolarmente alta. 

In realtà, anche un proposito apparentemente meno impegnativo come quello relativo alla modifica del Regolamento di Dublino (politica di asilo dell’Unione) sarà molto probabilmente soggetto a gravi difficoltà. L’intento è certamente in linea con la particolare attenzione posta dal Parlamento nella tutela e promozione dei diritti umani dentro e fuori i confini dell’Unione. Tuttavia, per potersi realizzare su impulso del Parlamento, tale proposito non può contare solo sul potere di co-legislatore di quest’ultimo, ma richiede anche una notevole capacità di costruire preventivamente intese politiche con la Commissione e il Consiglio (e tramite questo con i paesi membri), in linea con la natura iper-consensuale del sistema politico dell’Unione. 

Inoltre, le possibilità per il Presidente del Parlamento europeo di esercitare in maniera significativa un tale ruolo di guida dei processi politici dell’Unione – al di là dei suoi poteri stabiliti dai Trattati – dipendono anche dalle sue qualità personali, come appunto la capacità di costruire “alleanze” con attori istituzionali e non all’interno dell’Ue. In questo senso, il riferimento alle esperienze passate dalla persona che occupa la carica è certamente utile (e da questo punto di vista Sassoli non si può certo considerare un “peso massimo” della politica europea); tuttavia, nulla esclude che il ruolo istituzionale e le risorse ideali e materiali cui esso dà accesso facciano emergere capacità inespresse, dando luogo a esiti imprevisti. 

A ciò è collegato anche l’ultimo aspetto che affrontiamo qui, ovvero l’effettiva ricaduta dell’elezione di Sassoli in termini di “prestigio” per l’Italia a livello di rapporti fra paesi membri. Di per sé, il ruolo di Presidente del Parlamento europeo non garantisce una “rendita di posizione” paragonabile a quelle garantite da altre posizioni di vertice, e richiede quindi un più di incisività nell’esercizio delle prerogative che esso comporta. D’altro canto, analogamente a quanto accade con i vertici e i componenti di altre istituzioni sovranazionali come la Commissione europea o la Banca centrale europea, un’efficace e adeguata interpretazione del proprio ruolo istituzionale può comportare la negazione degli interessi del paese di provenienza di colui che detiene la carica. Comprendere – e far comprendere agli elettori – quali siano i guadagni di lungo periodo derivanti dall’adesione ai principi del governo sovranazionale, a fronte dalle rinunce di breve-medio periodo che questa comporta, costituisce non solo una sfida per il personale politico dell’Unione, ma anche uno degli aspetti che rendono più chiaramente l’idea di quanto sia intrinsecamente complicato (eppure inespertamente resistente) il processo d’integrazione europea. 

* docente di Istituzioni europee alla facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere