di Franco Bassanini e Alberto Quadrio Curzio *

La forza delle dinamiche economiche, scientifiche e tecnologiche delinea infatti una situazione del tutto nuova, come fu quella, mutatis mutandis, generata dalla rivoluzione industriale.
Ma da qui anche l’analisi - già sopra accennata - della nuova sfida, della nuova minaccia che la democrazia deve fronteggiare: l’affermarsi della cultura e della pratica della disintermediazione politica: di un modello giacobino di democrazia immediata, centralizzata e plebiscitaria, basato sul rapporto diretto tra il leader e i suoi seguaci,  dunque sulla concezione del popolo sovrano come un insieme atomistico di individui, sul rifiuto dei limiti costituzionali, sulla compressione delle autonomie, sulla delegittimazione dei corpi intermedi e sul ridimensionamento del loro ruolo, sulla rivendicazione della prevalenza della politica sulla libertà del mercato e sulla autonomia delle autorità preposte alla sua regolazione indipendente. È il vero nemico, se non l’antitesi, del principio di sussidiarietà.  È la nuova incarnazione del «mostro effimero» (la «costituzione repubblicana nella testa e ultra monarchica in tutte le altre parti») di Alexis de Tocqueville.  

Nasce, nei Paesi a economia matura, come risposta alla crisi di legittimazione e di consenso dei partiti ideologici tradizionali e delle stesse istituzioni rappresentative. Sfrutta in molti Paesi, in primis l’Italia, la protesta nei confronti di un ceto politico non alieno da pratiche corruttive e scarsamente attento alla qualità dei servizi pubblici. Trova un ideale terreno di cultura nelle nuove forme di comunicazione politica, veicolate dai media radiotelevisivi e dai social networks. Si alimenta, infine, delle disuguaglianze, dei timori, del disagio sociale, e conseguentemente della protesta, generata dalla crisi finanziaria e dalla recessione economica, e poi esasperata dalla globalizzazione, dalla rivoluzione tecnologica, dalle migrazioni continentali di massa. Si diffonde tra i perdenti della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, tra i più esposti all’impoverimento delle classi medie e alla reazione identitaria di fronte alle migrazioni di massa.

In nome della volontà popolare espressa nell’investitura del leader tutti i contrappesi previsti dalle Costituzioni liberali sono travolti: divisione dei poteri, checks and balances costituzionali, istituzioni di garanzia, autorità indipendenti di regolazione o di vigilanza sono viste come un intralcio all’attuazione delle scelte politiche volute dal popolo sovrano. Le autonomie territoriali, le autonomie funzionali, le organizzazioni sindacali e di categoria, le organizzazioni di volontariato, le associazioni culturali, i comitati di quartiere, i gruppi di interesse sono riconosciuti e accettati solo in quanto rinuncino a partecipare da protagonisti al processo di formazione delle scelte democratiche e si chiudano nell’autogestione di interessi settoriali. La complessità delle forme e degli strumenti di partecipazione propria delle democrazie moderne tende a ridursi alla adesione atomistica alle scelte del leader, a loro volta attentamente calibrate e sapientemente comunicate in modo da favorire l’«effetto gregge». Il dialogo sociale, il confronto e la concertazione fra i governanti e le organizzazioni sindacali, imprenditoriali o di categoria, viene declassato a strumento di vecchie logiche corporative.

La crescita della cultura e della pratica della disintermediazione politica e l’affermarsi del modello della democrazia immediata e plebiscitaria deve ritenersi inarrestabile? Noi non lo crediamo. Pensiamo che la partita sia aperta. E che il terreno sul quale la partita sarà vinta o perduta è proprio quello della riattivazione della cultura della mediazione e del dialogo sociale e istituzionale, e della valorizzazione e del rilancio del ruolo, anche politico, delle comunità intermedie e delle autonomie territoriali, dunque della attuazione in concreto del principio di sussidiarietà.
 
Non solo perché il pluralismo sociale e istituzionale è – come è evidente – l’antitesi del centralismo plebiscitario.  Ma anche perché la rivitalizzazione e il rafforzamento del ruolo politico delle autonomie (istituzionali, sociali, culturali) sembra essere l’unico strumento subito disponibile per contrastare la principale motivazione profonda della deriva plebiscitaria e populista: che è la sensazione largamente diffusa, non solo nel nostro Paese, che la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, le migrazioni di massa, da un lato, e l’affermarsi di poteri sovranazionali (i mercati, la finanza globale, l’Unione europea, le agenzie di rating) dall’altra, abbiano sottratto ai cittadini (al popolo sovrano) il controllo sulle scelte dalle quali dipende il loro futuro; e che dunque l’unica possibilità to take back control sia quella di delegare i poteri a un capo che possa in qualche modo decidere per noi.

* Presidente Fondazione Astrid e Presidente del Centro di Ricerche in Analisi Economica (Cranec)


Il testo è uno stralcio della Prefazione al volume Il Mostro effimero. Democrazia, economia e corpi intermedi (Il Mulino, 2019)