di Michele Massa *

Quando ho sentito riprendere il discorso sulla legge elettorale, confesso che ho avuto un pensiero egoistico e autoreferenziale: come farò a inserire questa ennesima discussione, e le novità che potrebbero venirne, nelle lezioni per i corsi che stanno per iniziare? Le ore sono poche, gli argomenti tanti ed è già molto lo spazio dedicato ai sistemi elettorali.

Per molti anni, la legislazione per l’elezione del Parlamento era rimasta alquanto stabile.

Semplificando al massimo, il Regno d’Italia è nato sotto le insegne del maggioritario, quasi sempre uninominale. Il proporzionale è arrivato nel 1919, insieme al suffragio universale maschile, e – dopo la cesura segnata dal fascismo – ha accompagnato a lungo la storia della Repubblica. La riforma del 1953, nota come “legge truffa” e basata su un incisivo premio di maggioranza, non ebbe sostanzialmente alcun effetto e fu subito abrogata.

Le pulsioni di cambiamento dei primi anni ’90 e i referendum del 1991 e 1993 aprirono la via alla “legge Mattarella” (leggi nn. 276 e 277 del 1993), che prevedeva un sistema per tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale, sì da assicurare una sorta di diritto di tribuna anche alle forze politiche minoritarie e una presenza comunque diffusa ai partiti maggiori. Questo modello è stato applicato per tre volte (1994, 1996, 2001).

Fu un cambiamento significativo, ma è sul finire della XIV Legislatura che è iniziata la fase di più accentuata instabilità.

Alla fine del 2005, venne approvata l’inedita “legge Calderoli”, dal nome dell’allora ministro delle riforme, che qualche tempo dopo la bollò in termini tali, da renderla comunemente nota come “Porcellum”. Era un sistema proporzionale, con lunghe liste di candidati, senza voto di preferenza e con un premio di maggioranza attribuito a livello nazionale alla Camera, spezzettato regione per regione al Senato. Fu applicata anch’essa tre volte (2006, 2008, 2013) ma sin dall’inizio destò tali e tante perplessità che, alla fine, fu colpita da una storica – e per molti versi inaspettata – sentenza di illegittimità costituzionale (n. 1 del 2014).

Nel 2015 arriva la legge elettorale, nota come “Italicum”, che avrebbe dovuto accompagnare la riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi: ancora proporzionale con premio di maggioranza, ma attribuito in modo differente (con la possibilità di un ballottaggio tra le forze maggiori, se nessuna avesse raggiunto in prima battuta il 40% dei voti); ancora con liste bloccate, senza preferenze, ma più corte (con pochissimi candidati). Era un tentativo di adattare il modello precedente alle indicazioni di Palazzo della Consulta. Ma anch’esso è caduto sotto la scure dell’illegittimità (sentenza n. 35 del 2017), dopo che la stessa riforma costituzionale era fallita. Si arriva così alla legge Rosato (o Rosato-Fiano), approvata per dare seguito alla sentenza del 2017, evitando di andare alle elezioni con due sistemi, per Camera e Senato, asimmetrici e di conio sostanzialmente giurisdizionale. Anche questo è un modello complesso: maggioritario per circa un terzo; per il resto proporzionale, con contenute soglie di sbarramento; senza possibilità per l’elettore di votare disgiuntamente (per partiti diversi) nell’uno e nell’altro canale. Questa legge è stata applicata nel 2018, generando la XVIII Legislatura, alle cui vicissitudini stiamo assistendo.

E perché dopo tanti sforzi di creatività si parla ancora di riforme?

Perché, come si è detto qualche giorno fa, si attende il cosiddetto taglio dei parlamentari, da 630 a 400 deputati, da 315 a 200 senatori. Questo taglio non è privo di controindicazioni, come alcuni colleghi hanno messo in luce. Comunque la si pensi, di sicuro con meno seggi da distribuire il canale proporzionale del sistema vigente funzionerebbe in maniera diversa: per così dire, sarebbe più avaro, o meglio più selettivo, con un effetto favorevole alla compagine prevalente, rafforzato dal parallelo canale maggioritario. Da qui la discussione sulle possibili modifiche.

Cosa augurarsi da queste discussioni?

È ingenuo pensare che resteranno immuni dalle esigenze avvertite dalle singole parti politiche. Non si può affatto escludere che meriteranno il sarcasmo con cui alcuni commentatori, aspri ma dotati di buona memoria, le hanno bersagliate in anticipo. Sulla base dell’esperienza degli ultimi anni, si potrebbero azzardare alcuni consigli: non ridursi alla vigilia delle elezioni e a tatticismi di cortissimo respiro; leggere con attenzione le sentenze della Corte costituzionale; preferire modelli lineari e sperimentati; guardare con circospezione ad esperimenti troppo sagaci di ingegneria costituzionale; non contare eccessivamente sulla possibilità che una legge dia a un sistema politico ciò di cui esso ha bisogno, ma che fatica a dare a sé medesimo.

Nel mio piccolo, spero di non dovere aggiungere ancora molte volte pagine e ore alle lezioni, per spiegare agli studenti una storia sempre più tormentata e astrusa. Anche se – a suo modo – istruttiva, per chi abbia tempo, strumenti e pazienza – tanta – per decodificarla.

* Docente di Istituzioni di diritto pubblico, facoltà di Economia, campus di Milano