Chiara Menescalchi, alumna della facoltà di Psicologia, ha viaggiato tre mesi con il suo compagno Federico Caruso, professionista del suono, attraverso il Sudamerica per raccontare il delicato e spesso scomodo tema della malattia mentale. “In viaggio con la mente”, questo il titolo del documentario, è un progetto che affronta il dolore dell’esperienza della malattia psichiatrica attraverso la voce di ospiti, operatori e dirigenti di due strutture: la Casa del Paranà a Rosario (Argentina)e l'Hospital San Juan Pablo II di Cuzco (Perù).

Com’è nata l’idea del documentario? «Io sono psicologa, Federico è fonico. Abbiamo entrambi la passione per i viaggi. Nel 2017 ci siamo chiesti: come possiamo coniugarla con il nostro lavoro? così è nata l’idea di un documentario in Sudamerica che toccasse temi etici a cui teniamo molto. Dal 2014 sono volontaria dell’associazione Aiutiamoli Onlus che si occupa proprio di riabilitazione e di risocializzazione di persone con disabilità psichiatrica».

La Casa del Paranà a Rosario in Argentina e l’ospedale Juan Pablo II a Cuzco in Perù. A che cosa è dovuta la scelta di indagare queste due realtà? «La casa del Paraná è l'unica Casa Club di tutto il Sudamerica, l’abbiamo scelta perché è un modello positivo. Si ispira alla Fountain House negli Stati Uniti che è stato il primo modello di riabilitazione psichiatrica totalmente innovativo, dove il paziente non è solo l’utente di un servizio ma è membro attivo di una comunità. L’ospedale Juan Pablo II sta portando avanti un’impresa titanica perché copre un territorio molto vasto che va dalle Ande fino alla selva».

È cambiato qualcosa dell’idea iniziale durante il viaggio? «L’idea iniziale era di girare in tre paesi diversi, anche in Bolivia, ma quando siamo arrivati non abbiamo avuto l’autorizzazione a entrare». 

Che cosa vi aspettavate e che cosa avete trovato? «Quando siamo partiti non ci aspettavamo così tanta partecipazione da parte di tutti, sia professionisti che pazienti. Non ci aspettavamo neppure così tanta resilienza. Ci aspettavamo delle testimonianze di forza ma ci è stata regalata davvero una grandissima vitalità ed energia». 

Ci hai detto di credere molto in questo documentario, dal punto di vista umano, etico, culturale e non ultimo etno-psichiatrico. Che cosa significa per te? «Volevamo indagare aspetti diversi. Sicuramente parlare di sofferenza umana: è incredibile quanto sia la stessa in tutto il mondo. Quando dico etno-psichiatrico è perché non si può pensare di applicare la nostra mentalità al mondo sudamericano. In Perù, per esempio, c’è tutta una cosmogonia andina e una tradizione che nulla ha a che fare con la nostra realtà. Un paziente psichiatrico italiano ha fiducia mediamente negli psicofarmaci, in Perù no. Qui la situazione è molto diversa. È interessante dunque vedere come un trattamento funziona in base anche alle diverse tradizioni culturali». 

Nel documentario professionisti e pazienti sono tutti sullo stesso piano. Che cosa rispecchia questa scelta? «È una scelta voluta. Con il regista Andrea Sartori abbiamo privilegiato il piano esistenziale, dando voce a pazienti, familiari, psicologi affermati e tirocinanti. Ognuno di loro ha saputo portare un contributo molto valido al racconto».

Qual è il messaggio più importante di questo documentario? «Che le emozioni, i problemi e le soluzioni sono gli stessi in tutto il mondo. Nello specifico per la salute mentale è la formazione, il parlarne, non avere paura o vergogna. Tutti abbiamo sentimenti e attraversiamo momenti in cui siamo più vulnerabili». 

Una psicologa documentarista. Come ti vedi in questo ruolo? Che cosa hai messo in pratica dei tuoi studi universitari? «Ricordo la professoressa Ondina Greco quando ci parlava delle mille facce della normalità. All'inizio non la capivo, poi mi sono appassionata. Le mie basi accademiche mi sono servite per comprendere quello che mi dicevano le persone, ma anche per avvicinarmi loro con empatia».

Quando si potrà vedere il documentario? «Il 10 ottobre in occasione della Giornata mondiale sulla salute mentale proietteremo in anteprima il documentario in streaming. L’idea poi è quella di portarlo in luoghi in cui si possa vederlo e discuterne con le persone in sala».