Odio online, razzismi 2.0, hate speech e ostilità verso l’altro: la diffusione di azioni e linguaggi violenti nel Web preoccupa chi cerca risposte educative. Non si tratta di fenomeni nuovi, ma l’ambiente digitale fa acquisire caratteristiche specifiche e particolari.

Emerge una novità: online diventa molto più labile la separazione tra razzismi espliciti e latenti, teorizzata negli ultimi decenni. La cultura convergente e la partecipazione 2.0 diffondono e normalizzano contenuti dichiaratamente ostili o violenti. Il processo di accettazione sociale, che spesso passa dalla critica al “politicamente corretto”, dall’ironia e dalla pretesa di “non essere preso sul serio”, si nutre della deresponsabilizzazione degli utenti e della banalizzazione delle pedagogie d’odio. I razzismi si presentano, insomma, come semplificazioni interpretative di un mondo complesso.

A questo tema Stefano Pasta ha dedicato il volume “Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online” (Scholé-Morcelliana). Il titolo del libro è al plurale: le manifestazioni e le intenzionalità di chi agisce l’hate speech sono diverse. «Durante la ricerca - spiega lo studioso - ho chattato con ragazzi con un’adesione ideologica strutturata e con altri - molti di più - che ripetevano “mi stai prendendo troppo sul serio”, “ho fatto solo una battuta”. Ma la posta in gioco è seria: sono giovani che inneggiano allo stermino, invocano le molotov contro i profughi, commentano un gol usando “ebreo” come parolaccia e scherzano sulla Shoah, minacciano di stuprare una coetanea che non la pensa come loro. Spesso l’odio elegge a bersaglio più target allo stesso tempo: quando si prende di mira una donna perché africana, o in quanto accusata di essere a favore degli stranieri, scatta facilmente l’insulto sessista o contro i disabili».

«Inoltre, l’hate speech - e ancora di più i casi segnati da superficialità e provocazione - appartiene a quello che Marc Prensky, nel 2011, ha chiamato cyberstupidity» prosegue Pasta. «Indica tutti i comportamenti nel Web per i quali gli autori non valutano le conseguenze delle loro azioni. In questo senso, cyberbullismo e sexting appartengono allo stesso spettro di comportamenti».

Il libro - destinato a insegnanti, educatori, operatori sociali, studenti, decisori politici e cittadini - propone un nuovo modo di pensare la media education, facendola uscire dal recinto dell’educazione formale per promuoverne l’incontro con la prevenzione e la cittadinanza. Non basta più educare lo spettatore, serve anche educare il produttore che ogni spettatore è diventato grazie allo smartphone che ha in tasca. Insieme al pensiero critico occorre sviluppare responsabilità; in questa direzione sono analizzate le varie caratteristiche dell’ambiente digitale, come la velocità, l’anonimato, l’autorialità, il ruolo delle immagini e del flaming, nonché alcune conversazioni via social network sulle performance razziste degli adolescenti: un caso di etnografia virtuale, ma anche un tentativo di educazione alla riflessività.

Come si risponde all’odio verso l’altro? Come si crea responsabilità sociale? Alla media education si affianca il contributo della pedagogia interculturale e dell’educazione alla cittadinanza. La proposta è un approccio morale che educhi a comportamenti di aiuto e cooperazione, orientando a essere non solo naturalmente, ma anche culturalmente, “negli” altri e “per” gli altri. Si apre dunque un grande campo educativo, ancora più importante della denuncia: promuovere gli anticorpi della Rete e l’attivismo digitale di cittadini che devono essere formati come agenti morali capaci di soggettività critica, attraverso l’assunzione di responsabilità personale.