Il rapporto tra l'uomo e i robot è diventato il fulcro di un numero notevole di studi, alla luce della loro crescente integrazione in una varietà di campi, dal lavoro ai contesti educativi. Un team internazionale e interdisciplinare di ricercatori (psicologi e ingegneri robotici) della facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Cattolica (Antonella Marchetti, Davide Massaro, Cinzia Di Dio e Federico Manzi) e giapponesi (Shoji Itakura dell’Università di Kyoto; Takayuki Kanda dell’Università di Kyoto e dell'Advanced Telecommunications Research Institute International di Kyoto; Hiroshi Ishiguro dell'Università di Osaka e dell'Advanced Telecommunications Research Institute International di Kyoto) ha condotto uno studio sull’interazione uomo-robot che ha coinvolto bambini di 5 e 6 anni che giocano con altri bambini e partner robotici. Lo studio è stato pubblicato sull’International Journal of Social Robotics.

«Da un paio d’anni l’interesse per l’interazione bambino-robot è una delle nostre linee di ricerca. Obiettivo dello studio è comprendere se i bambini si rapportino ai robot come ad agenti dotati di una Teoria della Mente, cioè di stati mentali soggettivi quali intenzioni, emozioni, desideri, credenze vere e false, e se agiscano con equità nei loro confronti, così come fanno nei confronti di partner umani» spiega la professoressa Antonella Marchetti, docente di Psicologia dello Sviluppo e Psicologia dell’Educazione e direttrice dell’Unità di Ricerca sulla Teoria della mente presso il Dipartimento di Psicologia. 

Come funziona il gioco che è stato utilizzato per valutare la propensione dei bambini all’equità? «È un gioco nato nell’ambito dell’economia comportamentale per comprendere come le persone prendono decisioni strategiche relative alle modalità di spartizione di un bene. Gli psicologi hanno utilizzato questo gioco per analizzare se e come la propensione all’equità cambi in funzione di una serie di variabili, tra le quali l’età. Il gioco si chiama Ultimatum Game e ha la seguente regola: vi sono due partner e lo sperimentatore assegna a uno di essi il ruolo di Proponente (che propone come spartire il bene) e il Ricevente (che può solo accettare o rifiutare l’offerta fatta dal Proponente). Se il Ricevente accetta, l’offerta viene spartita come proposto dal Proponente, mentre se rifiuta nessuno dei due partner prende nulla. 

Come si comportano i giocatori? «Il gioco è strutturato con lo scopo di attivare la propensione all’equità e l’avversione all’iniquità: anche se il Proponente ha, in linea di principio, il potere di offrire poco, la norma sociale di equità prescrive una certa quota di reciprocità negli scambi sociali. Inoltre, il pensiero strategico di tipo ricorsivo suggerisce a entrambi i partner di considerare il punto di vista dell’altro (Teoria della Mente). 

Cosa succede, in pratica? «Per il Proponente si tratta di capire che se la sua offerta è troppo bassa, il Ricevente sentirà intaccata la propria reputazione e quindi sussiste il rischio che l’offerta venga rifiutata; mentre il Ricevente è opportuno comprenda che il Proponente ha il potere di fare offerte anche basse ed è utile immagini come si comporterebbe lui se fosse al suo posto. Queste due capacità - la propensione all’equità e il pensiero ricorsivo - si sviluppano nel tempo. Infatti, i bambini più piccoli ritengono che una spartizione equa sia quella perfettamente paritetica (5 e 5), non considerando il fatto che il Proponente detiene il potere di stabilire l’offerta. Si tratta quindi di un gioco che richiede di mettersi nei panni degli altri per capire qual è la minima offerta che si può fare loro affinché non venga rifiutata e anche di capire che in situazioni di asimmetria di potere l’equità non coincide con la spartizione perfetta».

Quali sono stati i risultati del vostro studio? «La fascia d’età da noi esaminata è interessante in quanto si tratta di bambini in transizione verso i contesti scolastici, dove verranno sempre più confrontati con richieste di comportamenti equi e collaborativi con i pari. Inoltre, a 5-6 anni il bambino è capace di un pensiero ricorsivo di primo ordine a proposito degli stati mentali ed è dunque in grado di comprendere che gli altri possono avere credenze false, cioè diverse dallo stato dei fatti. A questa età si è cioè in grado di elaborare una meta-rappresentazione della mente altrui». 

Parlando di falsa credenza, i robot possono sbagliare o mentire deliberatamente? «I robot che vengono usati nei contesti educativi sono programmati dall’uomo. Possono mentire solo se vengono programmati a farlo. Siamo ben lontani dal funzionamento di architetture cognitive artificiali basate capaci di un apprendimento indipendente dalla programmazione umana». 

Se ci sono, quali sono i vantaggi per i bambini nel percepire i robot come loro simili? «Quello che noi abbiamo scoperto è che i bambini, nell’Ultimatum Game, si comportano in modo analogo con i partner umani e robotici; inoltre, essi ritengono che anche i robot come gli altri bambini possano formarsi credenze false. Tuttavia, quando viene chiesto loro nel dettaglio se un robot può pensare, immaginare o sognare (cioè se i robot sono dotati di una serie di stati mentali soggettivi specifici), e si confrontano le loro risposte con quelle date rispetto agli stati mentali degli altri bambini, si osservano interessanti differenze. I partner umani sono infatti concepiti come dotati di una varietà più ampia e articolati di stati mentali, cioè di un mondo interno soggettivo diverso e più ricco di quello dei robot».